Il risultato del laicismo, la sfiducia

Anni fa scrissi un articolo, Laico parola poco laica (Città nuova n. 9/ 2000) di cui oggi ripeterei ogni virgola. Nel frattempo l’uso invalso della parola e la prassi corrispondente hanno aggravato le cose, producendo sempre più il laicismo, parola ancor meno laica e che non occorre descrivere nei suoi esiti quotidiani: ognuno li conosce, a partire dal deprimente sistema pubblicitario- televisivo inserito nella dittatura del relativismo culturale, e dalle ideologie consumistiche più dissennate; le quali tutte, volendo convincerti che la vita è adesso (toh, credevamo che fosse domani), ti istigano a consumarti come un cerino spendendo ovviamente tutti i tuoi soldi, dopo puoi scomparire. Ora mi interessa non una desolata geremiade sul (reale) declino laicistico della società, ma l’individuazione dell’errore, del regresso chiamato progresso. Il laicismo era, è la bandiera della più sventolata libertà, dei diritti ipersoggettivi, del vivo come mi pare ecc., con la conseguente illusione di rapporti umani, dall’amore all’amicizia alla cittadinanza, spontanei, autentici, creativi e così via mistificando. Vorrei mostrare come esso raggiunga inevitabilmente il risultato opposto, come la colomba di Kant che volava nell’aria, ma volendo essere più libera volò nel vuoto e cadde. Coestensivamente al vivo come mi pare sono aumentati tutti i modi dell’irresponsabilità sociale (il lettore può farne l’elenco meglio di me): da cui l’evidente aumento di tutte le forme di solitudine e di estraneità reciproca (di cui le ammucchiate di folla sono non eccezioni ma riprove) e di reciproca ostilità. Questo generale peggioramento non è purtroppo in discussione; magari lo fosse, non so quanto pagherei per avere torto. Ora, io vorrei raccogliere tutti questi fili sparsi di enunciazioni in un nodo di evidenza generale, che è anche il loro comune denominatore: tendenzialmente nessuno si fida più di nessuno. Diciamo subito che le eccezioni ci sono, anche molte, ma solo là dove si vive, più o meno consapevolmente ma realmente, un ideale di vita che supera gli individui, cioè li eleva al di sopra dell’io ipersoggettivo. Altrimenti è disperazione variamente mascherata, da risa e sghignazzi a mutezza e suicidi. E vediamo perché non può non essere così. Se io dico che sto con te (per amicizia o amore) finché stiamo bene insieme dico nel migliore dei casi una superficialità, negli altri un’insensatezza aperta sull’abisso dell’inevitabile crollo e ripudio reciproco. Se poi dico che stiamo insieme fino a un tot-periodo di tempo, pronuncio una triste facezia (ma abbiamo perso il senso del ridicolo). E come posso fidarmi di chi dice di amarmi per tre mesi, o tre anni, fino a invio di raccomandata con ricevuta di ritorno? Se mi rivolgo a tv e giornali mi viene offerto all’80 per cento (siamo generosi) cretinismo ridanciano o chiacchiera, o volgarità in vari formati, o vile seduzione commerciale per polli tecnologici, il tutto difeso e imposto da continui strilli di progresso. E vorrei ricordare che il laico Leopardi ridicolizzava il mito del progresso (le magnifiche sorti e progressive), e Rosmini, il quarto grande della cultura italiana dell’Ottocento (con Foscolo Leopardi e Manzoni), dimostrava l’insensatezza di chiamare progresso qualsiasi movimento della società. Allora, che si fa? C’è un’immensa opera di recupero culturale da imprendere, e cultura non significa subito e solo leggere libri giusti (anche, ma conquistata, prima, una certa prospettiva ordinatrice). Significa mettere in dubbio cartesiano tutti i dogmi-luoghi comuni del laicismo. Tutti. A partire dal proprio presunto diritto al vivere come mi pare. Non lo si vuole? L’alternativa è accomodarsi in basso, dove c’è molto posto (Dante ne sa qualcosa, per i suoi/nostri tempi ci ha costruito un mirabile inferno).

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