Il rifiuto della guerra

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Era la primavera inoltrata del 1940; il giorno della mia prima comunione. L’avvenimento lieto, lungamente atteso, era stato preparato con cura. Festa grande in famiglia. Al pranzo, nella villa di campagna, erano presenti molti parenti. Convenevoli, complimenti di circostanza per me che mi aggiravo impacciato nell’abito bianco, per la prima volta con i pantaloni lunghi. Ma nessuna gioia sui volti. Anzi, molta preoccupazione. Ero l’unico ometto – così mi definivano – che non avrebbe rischiato di essere richiamato alle armi. Da mesi ormai divampava la guerra in Europa e ci si aspettava il coinvolgimento dell’Italia. Facile profezia che si avverò nel volgere di pochi giorni. Se volessi guardare alla mia vita per rileggerla come si fa con le stratificazioni geologiche, mi accorgo ora che anch’essa si compone di fasce molto ben distinguibili e che, quel giorno, cambiò nettamente di colore. C’è un prima: l’età della spensieratezza, della fiducia cieca nell’amore degli altri, quasi un’età dell’oro. E c’è un dopo, l’età della coscienza, un’età di fuoco e d’acciaio che ha un nome ben preciso: guerra. Non avevo ancora sei anni e ci sono scivolato dentro come in un gioco che tutti coinvolgeva. Leggevo sui volti e coglievo nei discorsi dei miei genitori preoccupazione e dolore, mentre a scuola ci mettevano davanti prospettive esaltanti. La finzione non durò. Arrivarono presto i primi feriti e le lettere dei nostri soldati fatti prigionieri. Di qualcuno che mi era stato amico, seppi che non sarebbe ritornato più. Entrò nell’olimpo dei miei eroi. Si chiamava Ettore e lo assimilai allo sfortunato difensore di Troia. Ma noi pure ci sentivamo predestinati ormai a finire in un rogo che si avvicinava ogni giorno di più. L’illusione dell’8 settembre del ’43, che ci portò nelle piazze ad esultare, durò lo spazio di poche ore. Nella notte arrivarono le colonne corazzate tedesche e la situazione peggiorò. I fratelli maggiori dei miei compagni di classe, pur giovanissimi, sparivano per schierarsi, lo si seppe presto, su opposti fronti. La guerra civile fra italiani si aggiungeva a quella che combattevano gli eserciti regolari, con episodi di eroismo e di crudeltà che non avremmo creduto possibili. Si intensificavano i bombardamenti e ci ritrovammo mescolati ad un mare di sfollati, prima ospitati da noi in campagna, poi fummo noi stessi ad essere ospitati da loro in città. Non credo di avere conosciuto la paura, perché ogni momento era completo in sé. La scala dei valori mutava ogni giorno, come le merci che, al mercato nero, potevamo scambiare per sopravvivere. E alla fine, in cima a quella scala restò solo la vita. Era il momento della verità. Da noi il fronte arrivò e passò oltre il 21 aprile del quinto anno di guerra. Dopo pochi giorni, nell’intera Europa tutto era finito.O almeno così sembrò. Ma ci sbagliammo ancora una volta, perché ebbe inizio un feroce regolamento di conti che aprì la stagione delle vendette. Capii presto quanto fosse stato saggio mio padre a rifiutare a suo tempo, non senza danno, la tessera del Fascio. Non era certo una pace vera quella in cui di notte sparivano persone e i sacerdoti stessi venivano spesso eliminati perché ritenuti un ostacolo al nuovo ordine che si voleva instaurare. Il mondo era ancora diviso. Fra le grandi potenze stava per iniziare quella guerra fredda che sarebbe durata cinquant’anni. Ma sono proprio le diverse fasi del passaggio fra quella guerra appena conclusa e la successiva pace che vengono ricordate in questi giorni, a sessant’anni dalla fine del Secondo conflitto mondiale. Anni di cui si va via via estinguendo la memoria del vissuto, custodita ormai soprattutto da quanti nel ’45 erano bambini. Restano i documenti su cui gli storici hanno già lavorato e ancora si impegneranno. Forse, per la prima volta, ci stiamo accorgendo di compiere questa rievocazione con una coscienza nuova: non solo da italiani, ma da europei. E che non ci sono solo le nostre ferite da ricucire. Col senno di poi, quindi senza grandi meriti, diventa meno arbitrario trarre certe conclusioni che per lunghi anni potevano sembrare velleitarie. Si sono moltiplicate, con l’approssimarsi di questo anniversario, fiction televisive su alcuni episodi significativi di quel conflitto, quali la ritirata di Russia, il dramma delle foibe e l’esodo degli istria- no-dalmati, l’eccidio di Cefalonia; per il cinema, la ricostruzione delle ultime giornate di Hitler.Tentativi onesti, direi, dopo tanta retorica. Ci hanno aiutato a riflettere. La Seconda guerra mondiale è stata pur sempre il più esteso evento bellico della storia dell’uomo. Combattuta in tutti i continenti e su tutti i mari ha prodotto più di cinquanta milioni di morti e operato distruzioni immani. Ha portato però al superamento del colonialismo e alla nascita delle Nazioni Unite. Ha segnato la fine del nazismo (per noi del fascismo) e, con la vittoria delle democrazie, posto le basi anche per il superamento del marxismo. Soprattutto in Europa ha portato al tramonto dei nazionalismi con proiezione imperialista nel cui segno era iniziato il conflitto. Le popolazioni di Germania, Francia, Inghilterra e della stessa Unione Sovietica, infatti, nutrivano ormai, dopo le distruzioni e gli eccidi subiti, un sostanziale rifiuto della guerra. Sentimento questo sul quale si sono potute porre le basi dell’Europa unita. Paradossalmente proprio gli Stati Uniti, entrati nel conflitto come difensori degli ideali democratici e usciti dalla guerra come i veri vincitori, dopo avere vinto anche la guerra fredda e salvato l’Europa una seconda volta, hanno forse ereditato da quella esperienza un senso di superiorità che li distingue dalle democrazie europee: una contrapposizione dialettica, questa, che è venuta in evidenza già nella guerra del Vietnam ed ancora di più ora in quella irrisolta dell’Iraq. In questi giorni della rievocazione, oltre alla coscienza che tanto cammino è stato fatto sulla strada della democrazia e delle conquiste sociali e che tante discriminazioni sono state superate, si fa strada la consapevolezza che finalmente questa memoria deve essere condivisa non solo dagli italiani ma da tutti gli europei. E soprattutto che nel difficile cammino verso una convivenza planetaria, resa così attuale dalla globalizzazione, è davvero ogni giorno più forte l’imperativo che quell’esperienza ci detta: il rifiuto della guerra.

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