Il Processo a Gesù di Diego Fabbri rivive a San Miniato

Esempio coinvolgente di “teatro nel teatro”, l’opera, del 1955, è la storia di un gruppo di attori ebrei che recita il processo di venti secoli fa tra la gente di oggi
Processo a Gesù (foto Agus)

A scomodare un autore ritenuto ancora “scomodo”, Diego Fabbri, il cui teatro è stato spesso liquidato col termine “religioso” e quindi ghettizzato per giustificarne la quasi irrapresentabilità, è l’Istituto Dramma Popolare di San Miniato. Per la sessantaquattresima edizione della Festa del Teatro l’istituzione, votata coraggiosamente da sempre ad un “teatro dello spirito”, mette in scena l’opera più famosa del drammaturgo di Forlì: “Processo a Gesù”.

 

E non poteva esserci scelta migliore in vista del centenario della nascita, nel 2011, e nel trentennio dalla sua morte che cade ad agosto. Esempio coinvolgente di “teatro nel teatro”, l’opera, del 1955, è la storia di un gruppo di attori ebrei che recita quel processo di venti secoli fa tra la gente di oggi, perché assillati da alcuni interrogativi storici, particolarmente pressanti subito dopo la fine dell’ultima guerra.

 

Ma, sganciato da quel contesto storico, il testo è ancora oggi monito e richiamo per la ricerca della “verità”. Quella non facile e vendibile, ma che va cercata, con sofferenza, dentro l’animo umano. “Dov’è oggi la verità?” tuona l’ebreo Elia, il capo della compagnia che pone al pubblico lo stesso dubbio tormentoso che assilla lui, la moglie Rebecca, la figlia Sara e il giovane Davide.

 

Prendendo l’avvio dalla notizia che alcuni giuristi anglosassoni s’erano posti il problema del processo a Gesù e che si erano recati a Gerusalemme per ricelebrarlo pubblicamente, Fabbri si accorse dell’idea di un “processo” fatto da uomini d’oggi a Gesù, di un processo non tanto a Cristo, ma a loro stessi, “alla loro tenace e spesso oscura e irragionevole paura di abbandonarsi alla speranza”. Di qui l’impianto del dramma dove, servendosi di una struttura di tipo processuale in cui i fatti sono riferiti attraverso interrogatori e testimonianze, Fabbri mette in scena una drammatizzazione degli episodi della vita di Cristo.

 

Il testo pone domande che ci riguardano tutti, a prescindere dalla fede e dal credere o meno. Le ha poste al regista Maurizio Panici, e le ha sollecitate all’ottima squadra di attori scelti per dare voce e corpo a parole che necessitano di farsi “carne”, in ciascuno di loro anzitutto, per poi giungere come schegge a noi, e interpellarci. E riescono a chiamarci in causa le parole di quel dibattito insistente per accertare l’ineluttabilità o meno del tragico verdetto sul Nazareno, confermando, ancora oggi come all’epoca del suo debutto al Piccolo di Milano con la regia di Orazio Costa e nei successivi allestimenti, il proposito di Fabbri: “Ambisco che il pubblico esca dalla mia rappresentazione diverso da come è entrato, altrimenti la mia fatica è stata pressoché inutile”.

 

La trovata del processo conserva ormai qualcosa di pretestuoso, favorendo tra l’altro quella tendenza un poco oratoria che è nello stile di Fabbri. Così è scontata una certa matrice pirandelliana che la regia evidenzia con l’apparizione finale di finti spettatori in maschera per ridare al discorso una dimensione quotidiana e contemporanea, ma principalmente con la scoperta da parte degli interpreti, che le loro vicende personali, morali e di vita, sono riconducibili allo schema archetipo della vicenda di Cristo, del tradimento, della passione, del bisogno di credere, del dubbio, della debolezza umana. Ed è proprio attraverso questo passaggio che i personaggi acquistano una necessità intima che riesce a giustificare il tutto.

 

Dopo la prima parte espositiva con la ricostruzione del processo, dove viene posto il problema del fallimento dell’attesa messianica che va a toccare anche i cristiani incapaci di manifestare con le parole e le opere la loro fede, il dibattito sempre più diviene dibattito di coscienze, discorso dialettico tra etica e politica, rovello di colpe, ansie e speranze, che sono i momenti rivelatori di una condizione esistenziale.

 

La scena di Daniele Spisa, sullo sfondo della facciata del Duomo nella suggestiva omonima piazza della cittadina toscana, dispone davanti alla parete frontale di pannelli un’aula processuale con un banco centrale e poltrone geometriche stilizzate dove gli attori, in giacca e cravatta, sostano ai lati e avanzano per i loro interventi.

 

Sulle musiche intermittenti che sottolineano momenti cruciali e tengono alta la tensione, s’impone la forza della parola restituita con autorevolezza dall’ottimo cast capitanato da Massimo Foschi e con, fra gli altri, Crescenza Guarnirei, Massimiliano Franciosa, Alice Spina, Fabio Mascagni.

 

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