Il principe e il pescatore

Nella storica piazza Mercato di Napoli, ricordando Corradino di Svevia e Masaniello. Così diversi per epoca, stato sociale e ambizioni, ebbero in comune un tragico destino
Di Luca Aless - Opera propria, CC BY-SA 4.0

Ho voglia di rivedere a Napoli, dopo anni, la piazza che fu un tempo suo centro nevralgico, detta Foro Magno, poi Campo Moricino e infine Mercato per le attività commerciali che vi si tenevano, ma anche luogo preposto alla riscossione delle imposte, alle feste popolari e alle esecuzioni capitali. Oggi è tutta un cantiere in seguito agli interventi previsti dal Grande Progetto Unesco nella città partenopea: lavori-lumaca, purtroppo, a causa delle polemiche circa il tipo di pietra vulcanica da utilizzare nella pavimentazione, ma anche per la complessità di tracciato dei sottoservizi e per i ritrovamenti archeologici. Già restaurate invece sono le sue due fontane-obelisco settecentesche, anch’esse motivo di polemiche: che serve averle rimesse a nuovo in un sito ancora sottosopra e ingombro di materiali, senza aver provveduto a una recinzione protettiva, considerati i ripetuti vandalismi di cui sono state fatte segno?

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Monumento a Corradino di Svevia

Piazza famosa, questa, per esservi stato decapitato, il 29 ottobre 1268, l’ultimo erede maschio degli Hohenstaufen, Corradino, e per aver fatto da scenario, nel luglio 1647, alla effimera rivolta popolare capeggiata da Masaniello. Con la morte del sedicenne nipote di Federico II di Svevia, sceso in Italia per riconquistare il regno delle Due Sicilie ereditato dal nonno, ma dopo la sconfitta a Tagliacozzo (agosto 1268) consegnato per tradimento all’usurpatore Carlo d’Angiò, finiva la dinastia degli svevi e tramontava il sogno del Grande Impero. Con l’assassinio invece, quando ormai dava segni di squilibrio mentale, del capopopolo Tommaso Aniello D’Amalfi (tale il suo nome di battesimo) si spegneva la fiammata dei 10 giorni in cui, sotto la sua guida, i “lazzari” delle classi più umili erano insorti contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo, pur nell’obbedienza al re.

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Statua di Masaniello in terracotta, opera della ditta Vaccarella

Corradino e Masaniello, un aristocratico e un figlio del popolo: due figure così diverse per epoca, stato sociale e ambizioni, eppure accomunate da un’aura leggendaria tanto nell’ascesa quanto nella tragica fine. Ripenso a loro mentre mi dirigo verso l’altro polo storico della piazza, la basilica di Santa Maria del Carmine: il massimo tempio mariano dei napoletani. Qui ebbero sepoltura sia il giovane principe tedesco sia il pescatore e pescivendolo del Mercato; ma mentre le spoglie di Masaniello vi rimasero solo fino alla restaurazione borbonica del 1799, quando vennero riesumate e fatte sparire per volere di Ferdinando IV, i resti mortali di Corradino riposano tuttora sotto la statua fatta scolpire nel 1847 da Massimiliano di Baviera, suo parente.

Interamente circondato da ponteggi per i restauri è il campanile seicentesco che affianca la basilica: con i suoi 75 metri, il più alto di Napoli. La notte del 16 luglio, festa della beata Vergine Maria del Monte Carmelo, tra musiche, canti e bancarelle, la sua torre slanciata è avvolta da fuochi pirotecnici che illuminano a giorno la piazza gremita di folla. Già ai tempi di Masaniello l’“incendio del campanile” chiudeva i festeggiamenti, iniziati col finto attacco a un fortino di legno eretto nella piazza. Singolare coincidenza: Masaniello, che tante volte aveva partecipato a questa esibizione con i suoi “lazzari”, venne ucciso proprio durante le celebrazioni per una festa del Carmine, quella del 16 luglio 1647!

Precede l’ingresso del tempio barocco un atrio sotto il cui pavimento furono sepolti, alla caduta della Repubblica napoletana del 1799, molti dei giustiziati al Mercato, tra cui nomi famosi come Eleonora Pimentel Fonseca, Luisa Sanfelice, Mario Pagano e Domenico Cirillo.

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In penombra è la stupenda navata ricca di marmi policromi e di stucchi dorati. Illuminata è solo l’abside dove troneggia in una cornice marmorea l’immagine della Madonna Bruna (dal colore della pelle): opera di scuola toscana del XIII, è del tipo detto “della tenerezza”, che vede i volti della Madre e del Figlio accostati in atteggiamento di dolce intimità. Sosto davanti alla bella statua neoclassica di Corradino, realizzata su disegno del celebre scultore Thorvaldsen e sopravvissuta, durante l’ultima guerra, al crollo del soffitto ligneo (causa ne fu lo spostamento d’aria seguito all’esplosione, nel vicino porto, di una nave carica di armi e munizioni); mentre nascosta alla vista dei più è la lapide che indica il luogo di sepoltura di Masaniello prima che le sue ossa andassero disperse. A ricordarlo ora è una statua nel chiostro del Carmine, là dove egli venne finito con cinque colpi di archibugio.

Dal santuario mi sposto all’altra estremità di piazza Mercato, dove la bellissima chiesa in stile gotico francese di Sant’Eligio Maggiore sorge sul luogo dell’esecuzione di Corradino e dei cugini che lo avevano accompagnato nell’impresa. A ordinarne la costruzione nel 1270 fu lo stesso sovrano angioino che li aveva condannati a morte, come atto di penitenza verso papa Clemente IV, che malgrado la scomunica dei suoi predecessori su tutta la casata degli Hohenstaufen aveva condannato la brutale fine di un ragazzo poco più che adolescente.

I versi romantici di Aleardo Aleardi descrivono Corradino come un giovinetto «pallido e bello, con la chioma d’oro/con la pupilla del color del mare». Ha invece l’ampio respiro di un’opera di invenzione e di poesia, pur nella fedeltà ai dati storici, il romanzo di Italo Alighiero Chiusano Konradin, edito nel 1990. Sulla sconfitta subìta dallo sfortunato principe in una sperduta località d’Abruzzo si focalizza il recente saggio storico di Federico Canaccini 1268: la battaglia di Tagliacozzo (Laterza), scontro destinato a segnare il futuro dell’Italia: di fatto, a partire da quell’evento vittorioso per le truppe dello spregiudicato e ambizioso Carlo I d’Angiò, il Sacro Romano Impero avrebbe perso ogni ruolo nel nostro Paese e per secoli il papato si sarebbe trovato a svolgervi un ruolo egemonico.

Mentre alla figura di Tommaso Aniello D’Amalfi è dedicato il saggio di Aurelio Musi, pubblicato da Rubbettino, Masaniello. Il masaniellismo e la degradazione di un mito. Non una biografia, ma un’analisi del processo storico attraverso il quale il capopopolo di piazza Mercato è diventato il prototipo del ribelle senza sbocco, privo di razionalità politica e, pertanto, diretto da altri, ispiratore di tutti coloro che vogliono solo “fare ammuina” o “scassare”. Un saggio di grande attualità anche per la ricostruzione delle analogie e differenze fra “masaniellismo”, populismo e neoborbonismo.

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