Il primato dell’altro

La scoperta che Dio è Amore non può non spingere gli psicologi e la psicologia tutta intera ad interrogarsi sul significato che nella nascita e nello sviluppo della vita mentale assume l’amore, l’essere cioè “guardati”, “riconosciuti”, “accolti”, “curati”, ecc. Numerosissimi sono i contributi scientifici rivolti a questa pista psicologica, che studia la vita affettiva. Quello che è importante è vedere come la mente umana nasca dal “riconoscimento” da parte dell’altro: iniziamo ad identificarci con ciò che sperimentiamo in noi, impariamo ad organizzare e a regolare la nostra vita psichica, diveniamo capaci di sintonizzarci e di leggere le altri menti. Insomma la salute mentale di ogni bambino è legata all’amore, alla qualità delle relazioni affettive sperimentate con le sue figure di riferimento (principio di inseparabilità). D’altronde il grande desiderio che ogni bambino cova interiormente è quello di essere accettato dai suoi genitori e di garantirsi quindi l’amore che scaturisce dall’appartenere a quella famiglia, dove può crescere e svilupparsi serenamente. Un “senso di appartenenza” infantile che continuamente viene ricercato per tutta la vita, nelle forme più varie, quali la creazione di una nuova famiglia, il lavorare in un ambiente favorevole, il vivere un’appagante realtà comunitaria, ecc. Quando Freud acutamente diceva che “la felicità è l’appagamento postumo di un desiderio infantile”, intendeva proprio la realizzazione, in età adulta, di quell’amore infantile che accompagnava il senso di appartenenza alla propria famiglia d’origine, o meglio la realizzazione di quell’amore infantile che deriva dall’essere riconosciuti dai nostri genitori. Rimangono però ancora non sufficientemente focalizzati alcuni interrogativi di grande rilievo. Bowlby, nel 1951, dimostrò l’esistenza di una correlazione fra scadenti condizioni di vita, in particolare la privazione di adeguate cure materne, e la psicopatologia o quanto meno la sofferenza psichica: l’esperienza dell’essere non amati, non riconosciuti, non accolti, il fallimento del senso di appartenenza con relativa frustrazione e sofferenza, quale significato possono assumere nella normale economia della vita psichica? In quale misura, se “l’essere riconosciuti” è stato mancante o carente, può incidere nella nostra capacità d’amare? A me sembra che la scoperta di Dio Amore rinnovi profondamente questo paradigma, spingendo la psicologia ad andare oltre il semplice “essere riconosciuti” dall’altro, e la inviti ad un colpo d’ala verso “il saper riconoscere” l’altro: non basta più capire da dove proveniamo, psicologicamente parlando, ma è importante capire dove siamo diretti a prescindere dalla bontà o meno del nostro passato. E l’amore è la risposta a questo proposito, perché ci dirige verso uno stile di vita improntato all’amare l’altro sempre e continuamente, sempre e comunque nonostante la smentita degli avvenimenti passati e presenti. In altri ter- mini, la realtà di Dio Amore non può non proporsi ad una profonda rivisitazione della psicologia stessa, e non rivelarsi agli psicologi come il modello imprescindibile per il loro agire quotidiano. Sono convinto che esiste un legame misterioso tra Gesù l’Uomo-Dio e l’uomo in generale. Si tratta di un legame che si fonda sul primato dell’istanza affettiva rispetto ad altre istanze psicologiche, cioè del primato dell’amore sulla verità. Lo sapeva benissimo il filosofo Kierkegaard che, sofferente per tutta la vita di melanconia, una volta disse: “Anche se mi colpisse la demenza, basta che in me vinca l’amore di Dio”. Scoprire che siamo amati da Dio per noi stessi costituisce una esperienza di salutare rassicurazione e una autentica apertura profetica. Dio Amore viene incontro a noi, oggi, soprattutto dove appare più difficile avere rispetto di sé e dell’altro. Per cui la sfida a cui siamo chiamati è capire in che misura “l’essere riconosciuti” si collega al “saper riconoscere”, cioè riconoscere che possiamo amare anche se non siamo stati amati dai nostri genitori: forse può essere difficile ma certamente non impossibile se sullo sfondo della nostra esistenza campeggia l’affermazione: Dio è Amore. Perché se è vero che l’amore è un “bisogno” – e lo è indubbiamente, anzi è il più grande bisogno psichico -, è anche “la” risposta a tutti i nostri interrogativi più profondi, compresi quelli altrui; la risposta che continuamente ci mette in uno stato psichico di donazione altruista e di autotrascendenza che tante scuole di psicologia indicano come uno stato di autorealizzazione, pur non sapendo spesso come approdarvi. Potrebbero gli psicologi allora avere nel cuore un solo grande desiderio: quello di “saper riconoscere” l’Amore e di far sì che venga amato, nel senso che essi possono “essere amore per l’altro”, sia esso un collega di lavoro, un cliente, un paziente, uno studente, un bambino, una famiglia, una comunità, ecc. Ogni psicologo può liberamente realizzare tutto ciò nel suo agire quotidiano; per esempio un professore di psicologia cercherà di rammentarsi continuamente: “Ama lo studente tuo come te stesso”, oppure uno psicoterapeuta nello studio professionale cercherà possibilmente di vivere: “Ama il paziente tuo come te stesso”, soprattutto astenendosi da qualsiasi giudizio personale, tant’è che Jung una volta disse: “Anche un giudizio inespresso fa saltare tutta la terapia”. Per uno psicologo quindi “essere amore per l’altro” significa incarnare quell’amore che non è pura amicizia o solidarietà, ma ha radici in quell’arte di amare chiesta dal Vangelo: un amore che sa farsi vuoto davanti all’altro, farsi l’altro, senza interesse alcuno. L’esperienza dell’essere amati da Dio non solo sana i traumi più profondi, ma dà la forza di uscire da sé, amare e creare comunione sociale. D’altra parte, solo comportandosi così, uno psicologo può gettare le premesse per ottenere da subito un buon rapporto con l’altro. Ormai tutte le scuole psicologiche riconoscono che più che le tecniche o i trattamenti specifici, ciò che principalmente aiuta a guarire è la qualità del rapporto, è: “il transfert” di Freud, il “rapport” di Bandler, l'”empatia” di Rogers, o come lo si voglia definire; ma l’ essenza, il nucleo, è sempre l’amore. Perché più che lo psicologo, è l’amore che guarisce, è il rapporto che sana, e lo stesso psicologo grazie a questo rapporto d’amore, non solo comprende l’altro ma comprende anche sé stesso. In sintesi, tutto il discorso fatto finora, significa per uno psicologo mettersi al servizio di ciò che ha valore in psicologia e cioè la salute mentale, ma soprattutto significa mettersi al servizio di ciò che è l’oggetto cardine della psicologia, l’uomo. Se questo manca, manca una dimensione essenziale, che il professor Giuseppe Maria Zanghì a Malta, nel febbraio del 1999, in occasione della laurea honoris causa in psicologia a Chiara Lubich, rivolgendosi a circa 70 psicologi, chiamava “castità”: gli psicologi cioè devono tenere sempre presente che si trovano di fronte ad un figlio di Dio, e come tale appartiene a lui, per cui è loro richiesto il massimo rispetto per la trascendenza dell’altro.

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