Il potere e la storia

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In uno stato libero non spetta al parlamento, né all’autorità giudiziaria, definire la verità storica. Un principio, in apparenza, indiscutibile. Perché mai allora, una ventina di noti storici francesi ha sentito la necessità di ribadirlo, in un comunicato diffuso nel dicembre scorso? In effetti, le polemiche in Francia si trascinano, tra alti e bassi, da più di un anno. Forse non è il caso di festeggiare, ma cade in questi giorni l’anniversario della legge 158 del 23 febbraio 2005, riguardante la riconoscenza della nazione e il contributo nazionale in favore dei francesi rimpatriati. L’articolo 4 recita testualmente: I programmi scolastici riconoscano in particolare il ruolo positivo della presenza francese oltre-mare, soprattutto in Africa del Nord, e accordino alla storia dei sacrifici dei combattenti dell’esercito francese usciti da questi territori il posto eminente al quale hanno diritto. Non insegnerò il buon tempo delle colonie!: questa la reazione di molti insegnanti all’obbligo imposto dalle legge; reazione che, con parole più o meno simili, si ritrova in una infinità di petizioni organizzate da storici, insegnanti, associazioni per la memoria della schiavitù: Mentre la conoscenza scientifica del periodo coloniale – tuona la sezione di Tolone della Lega dei diritti umani – e la giusta misura dei crimini commessi cominciano infine a progredire, e si insegnano timidamente nella secondaria, dei deputati male ispirati impongono attraverso la legge l’insegnamento di una versione ufficiale irenica e menzognera della colonizzazione. A coloro che si allarmano per quello che viene letto come un tentativo di riabilitare il colonialismo si oppongono, d’altra parte, quelli che intendono opporsi alla tendenza al pentimento sistematico ; Finiremo, un giorno molto vicino – è intervenuto con la consueta finezza Nicolas Sarkozy – per scusarci di essere francesi?. Ma gli storici francesi non nominano soltanto la legge 158/2005; andi che altre fanno parte del loro bersaglio, pur essendo, quanto ai contenuti, di segno opposto. Per esempio, la legge Gayssot del 13 luglio 1990, che punisce chi dovesse negare i crimini contro l’umanità; o quella del 29 gennaio 2001, che riconosce il genocidio degli armeni; o quella del 21 maggio 2001, che dichiara la schiavitù e la tratta degli schiavi crimini contro l’umanità. Ciò che l’appello degli storici francesi non vuole, in sostanza, è che parlamenti e governi entrino in qualunque modo in campi che essi ritengono di esclusiva pertinenza della ricerca storica.Ma è pur vero che molte scelte politiche sono difficilmente separabili da valutazioni storiche. Ne sappiamo qualcosa in Italia, dove non finiscono mai le novità editoriali riguardanti fascismo e antifascismo. Fenomeni analoghi conoscono anche la Germania col nazismo, la Spagna col franchismo, ecc. Abbiamo posto il problema al prof. Giovanni Gentile il quale, oltre ad avere una lunga esperienza come insegnante, insieme al prof. Luigi Ronga è uno dei più apprezzati autori di manuali scolastici italiani. Rappresenta dunque proprio quella categoria che viene colpita direttamente dalle iniziative legislative francesi. Prof. Gentile, si può accettare che interessi attuali, siano essi di parte, politici o nazionalistici, possano influenzare l’interpretazione della storia? È il problema di sempre. Studiare la storia significa porsi delle domande che inevitabilmente sono radicate nell’attualità. La scienza storica, infatti, non si interessa al passato per un puro gusto di erudizione. Al contrario, ricostruisce fatti che vengono percepiti come importanti oggi: magari perché ne durano ancora le conseguenze o perché sono parte decisiva della nostra identità. La storiografia non solo ricostruisce il passano, ma ne cerca anche le ragioni, cerca un senso. E il lavoro di dare senso alle cose è un lavoro tipicamente intellettuale; non si trova nei documenti il senso di certe scelte; inevitabilmente ne risultano delle controversie. Per questo la storiografia, per sua stessa natura, non può che essere controversistica, nel senso che essa è sempre una ricostruzione del passato e quindi dà luogo ad interpretazioni, le quali non possono essere univoche. Ci troviamo dunque sempre davanti ad una pluralità di interpretazioni. Ma la serietà professionale degli storici, però, dovrebbe metterci al riparo dalle distorsioni vere e proprie. Il grande storico Marc Bloc ha voluto che sulla sua tomba fosse scritto: Dilexit veritatem; questo è lo storico. Certo, lo storico può anche partire da una posizione particolare, per esempio dalla convinzione personale che il colonialismo francese abbia avuto un ruolo positivo; ma se mette in pratica bene il suo mestiere, se rispetta la metodologia scientifica del fare storia, dovrà basare le sue valutazioni su dei documenti, trattandoli con onestà e, dunque, non sottacerne alcuni a vantaggio di altri, e così via; il punto di partenza deve essere tale, cioè: un punto da cui partire, che può essere confermato, oppure smentito dal proseguimento della ricerca. Se invece lo si mantiene contro la realtà dei fatti, rivela la sua natura di pregiudizio, che annebbia la capacità di ricercare in maniera seria. Non sono però i libri degli storici ad entrare nelle classi delle nostre scuole… Per l’autore di manuali o per l’insegnante in classe vale la stessa cosa: è normale che parta dalle proprie idee; anzi, sono proprio le convinzioni personali a muovere la ricerca; ma deve essere disposto a cambiarle. L’autore di manuali compie una mediazione tra la storiografia e la società: divulga. Operando una mediazione, egli deve attenersi al criterio fondamentale che guida anche la ricerca storica, e cioè l’onestà intellettuale e il rispetto delle esigenze scientifiche della disciplina. Deve mostrare la pluralità delle interpretazioni storiografiche, non darne – a mio modo di vedere – una come unica e assoluta, proprio perché non esiste, anche se è quella che l’autore di manuali ritiene più valida. Una volta, frequentemente, si chiedeva allo storico di scrivere anche i manuali per le scuole. E oggi? Se l’autore di manuali coincidesse con lo storico potrebbe anche dare un’unica interpretazione – la propria -. Ma questa situazione – più frequente una volta – non si dà più. Lo studente deve avere la possibilità di confrontare più prospettive: il manuale deve già essere pluralista al proprio interno. Lo storico può presentare la propria tesi come l’unica valida; il manualista – e il professore – non possono mai farlo. La difficoltà nasce relativamente ai livelli scolastici; è facile stralciare alcuni brani di diversi storici e offrirli come base per il dibattito di una classe di liceo; è più difficile, mano a mano che si scende nell’età degli studenti, dare la stessa complessità. E’ un lavoro impegnativo, anche sotto il profilo etico, proprio perché l’onestà intellettuale è il fondamento di questo mestiere. In tale contesto, l’atto del parlamento francese come suona? Che il parlamento francese imponga un obiettivo, una valutazione preventiva, entra proprio nell’intimo del ruolo dello storico e, poi, di chi media i risultati della ricerca storica per la formazione dei giovani. Un parlamento, o una qualunque personalità politica può dire la sua su un fatto e, se questa interpretazione ha una certa rilevanza, se ne terrà conto, ma non si può accettare che il politico voglia imporre un punto di vista o guidare il lavoro dell’autore di manuali, o quello dello stesso insegnante il quale, esattamente come l’autore di manuali, interpreta per i suoi studenti. Quella del potere politico è una ingerenza indebita e una pretesa assurda. Tra l’altro, secondo me, è anche inutile, perché nessuna legge potrà mai impedire la libertà di interpretazione.

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