Il Pasolini di Abel Ferrara bello e commovente

Bravi gli attori in questa ricostruzione delle ultime trentasei ore di vita dello scrittore e regista morto in circostanze ancora da chiarire. il film ha il timbro basso della ricostruzione rispettosa e vive un crescendo che non può non emozionare, tanto vi è di passione e di amore
Willem Dafoe e Abel Ferrara

Il filone adolescenziale della rassegna veneziana, che è ormai in chiusura, ha presentato due film di formazione alla vita diametralmente opposti. L’opera prima del turco Kaan Mujdeci “Sivas” è un racconto rapido, asciutto, violento del ragazzino Aslan che nel suo villaggio sperduto tra le montagne dell’Anatolia cresce a contatto con una famiglia dai gusti primitivi, fra cui i combattimenti tra cani. Il ragazzino ne accoglie uno ferito, Sivas, e diventa suo amico: ne è geloso custode, incattivito come l’ambiente intorno e costretto a crescere in fretta. Il film è crudele, di una crudeltà nei rapporti  troppo insistita come pure nelle scene dei combattimenti dei cani – reali? -, senza un barlume né di affetto né di speranza in un mondo selvatico.

Diversamente è la sensibilità femminile della regista Alix Delaporte – sono  ben quattro i film francesi al festival! – a costruire  in "Le dernier coup de marteau”, la vicenda del quattordicenne Victoire, che vive in una roulotte a Montpellier con la madre malata. Il ragazzo sogna il calcio, è timido e solo, scostante e bisognoso d’affetto. Ritrova in un direttore d’orchestra il padre che lo ha lasciato e non lo vuole e lo conquista, e quell’uomo burbero lo inizia alla musica immergendolo nella sesta sinfonia di Mahler. Victor cresce lentamente fra musica, desiderio paterno, voglia di amore e sogni del futuro. Delicato, luminoso e ben recitato dall’esordiente Romain Paul – è film che punta alla luce, e ci riesce.

Il filone biografico presenta, dopo il Leopardi di Martone, il Pasolini di Abel Ferrara, accolto da applausi perplessi. L’ultima giornata di vita dello scrittore – come Pasolini amava definirsi – è scandita fra interviste, pranzo in casa con la madre, la cugina, l’amica Laura Betti, la cena con Ninetto Davoli. Un uomo che vive all’Eur in una casa ben arredata, viaggia, scrive e poi la notte vive la seconda vita. Trentasei ore in cui Ferrara affida all’eccezionale bravura di Willem Dafoe– somigliantissimo, anche nella camminata, negli atteggiamenti, nei vestiti (quelli del poeta, forniti da Davoli) – la ricostruzione coraggiosa di un uomo timido e misterioso, polemico e profetico, presentando la ricostruzione di brani del suo ultimo romanzo “Petrolio” – un aereo precipita nel deserto – e del film mai girato Porno-Theo-Kolossal e giungendo alle sequenze finali dell’assassinio sul litorale romano, vittima più che di un omicidio “politico” – secondo il regista – di un incontro con balordi. Tutto si svolge in un tono sommesso e piano – tranne la scena orgiastica troppo insistita – culminando nel grido conclusivo della madre, davvero straziante – grande momento  – e lasciando alla voce della Callas che canta e ripete “Una voce poco fa” come a unire, in qualche modo, due vite insieme grandi e tragiche.

Nel film scorrono momenti lirici di dolcezza triste come la Roma notturna – dal Colosseo all’Eur – ben diversi nel loro struggimento dalla Roma artificiale del film di Sorrentino, ma colmi di mestizia bella. Insieme, è memorabile la figura di Ninetto Davoli che, come Epifanio, re mago che segue la stella (nel film mai girato) apprende che il paradiso non c’è, ma che conviene attendere, perchè qualcosa accadrà.

Impersonato da attori che, nei loro brevi interventi, non calano mai di tono (Riccardo Scamarcio come Davoli giovane; Ninetto  straordinario, Maria de Medeiros una Laura Betti forse troppo sofisticata, una Adriana Asti perfetta…), il film ha il timbro basso della ricostruzione rispettosa – come accadeva nel film di Martone –, ma vive un crescendo dall’inizio alla fine che non può non emozionare, tanto vi è di passione e di amore. Certo, lascia perplesso  chi è ormai abituato alla violenza esibita, ai colpi di scena, all’emotività istintiva, mentre qui si va piano, ma – pur tra alti e bassi – lontano, forse vicino al cuore vero di Pasolini.

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