Il nuovo libro di Barber

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A Davos quest’anno il freddo era pungente. I potenti dell’economia erano convenuti lo scorso gennaio come da tradizione nella cittadina svizzera per parlare del futuro globale. C’è voluta la rara abilità retorica di un Bill Clinton per riscaldare l’ambiente. L’indipendenza degli stati-nazione non è più sufficiente, rifletteva con gli illustri ospiti l’ex presidente americano, facendo osservare che oggi la realtà è interdipendente. Il mondo del presente ha bisogno d’integrazione, concludeva il vecchio Bill, guadagnandosi un caloroso battito di mani. Ogni volta che Clinton parla d’interdipendenza, il volto di Benjamin R. Barber si illumina. Fu infatti questo professore dell’Università del Maryland, che per primo ispirò l’ex presidente americano a metà degli anni Novanta sui temi della interdipendenza col suo libro Guerra Santa contro McMondo. Per cinque anni Clinton avrebbe così invitato Benjamin R. Barber nella tenuta presidenziale di Camp David, o nella stessa Casa Bianca, per parlare fino all’alba di globalizzazione, economia e politica mondiale. In quelle lunghe notti quando Clinton prendeva appunti per i suoi discorsi, Barber gli trasmetteva la passione per la democrazia che in lui, ancora adolescente, si era accesa proprio in Svizzera, al Collegio Albert Schweizer e che era maturata quindi con gli studi alla London School of Economics prima ed all’università di Harvard negli Stati Uniti poi. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, il mondo da bipolare è ormai multipolare. Flussi sempre più accelerati di denaro, beni, persone, ma anche di micidiali armi e virus, hanno reso i confini degli statinazione sempre più porosi. La spada, col suo potere di vita e di morte, non sarebbe stata più il simbolo della sovranità di uno stato. La sovranità sarebbe stata sempre più assicurata e mantenuta da una rete fitta di poteri diffusi, ricchi di tecnologie disciplinari capaci di controllare e guidare la vita degli individui. Per dirla col francese Michel Foucault, il potere è diventato un condotto di condotte. Così in un mondo diventato un villaggio globale e dove il potere è diventato diffuso, la logica dell’indipendenza degli stati nazioni non funziona più. Il mondo oggi non è la somma di indipendenze, ma è una realtà interdipendente. È questo il punto di partenza dell’ultimo libro di Benjamin R. Barber, L’impero della paura, che in Italia è pubblicato dalla Einaudi. L’autore guarda al mondo dopo l’11 settembre, e con sofferenza – a tratti con indignazione – guarda alla politica estera dell’attuale amministrazione americana. Gli Stati Uniti – afferma Barber – sono oggi in rotta di collisione con la storia. Secondo il professore di democrazia, infatti, i suoi leader perseguono una bellicosità sconsiderata, finalizzata a dare vita a un impero americano della paura più terrificante di quanto qualunque terrorista possa concepire. Un giudizio spietato e che forse può apparire esagerato. Ma più che un grido di protesta, quello di Barber è un grido di dolore che ha le sue radici nell’amore profondo che egli nutre per i valori sui quali si regge la storia e la tradizione democratica degli Stati Uniti. Benché sia il modello delle società democratiche, l’America agisce spesso con plutocratico disprezzo delle esigenze di uguaglianza globale, condannando un oscuro asse del male mentre ignora una sin troppo visibile asse della disuguaglianza. Benjamin R. Barber non divide il mondo tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, tra repubblicani e democratici (anche se non nega le simpatie per la sinistra americana ed è stato consulente, nelle recenti primarie, del candidato democratico Howard Dean). Semmai per il professore, il mondo si divide tra aquile e civette. Tra chi, cioè, privilegia una sovranità nazionale resistente alla stipulazione di trattati e alla cooperazione multilaterale, e chi, invece, preferisce confidare in un diritto globale forte, garantito dalla cooperazione e da un ordine globali, e in mi- sure di sicurezza collettive. Aquile e civette sono sparpagliate a destra come a sinistra. L’interdipendenza, spiega Barber, non è tanto un’aspirazione, quanto una pressante realtà che impone di cooperare con gli altri secondo il diritto, perché questo è l’unico modo per sopravvivere al sistema . In altre parole, la realtà del mondo d’oggi ha bisogno di meno aquile, predatori che ghermiscono la preda in pieno giorno senza eccessiva premeditazione, e di più civette, che hanno la vista acuta anche in un mondo d’ombre e che vede lontano anche di notte. Criticare e solo criticare sarebbe troppo semplice, e per Barber anche irresponsabile. La sua audacia non sta solo nel criticare la teoria della guerra preventiva, ma soprattutto nel proporre una alternativa: quella della democrazia preventiva. Insomma, per Barber non si può rispondere ad una logica del terrore col terrore. Il terrorismo si combatte, invece, con più democrazia. Ma la democrazia – avverte Barber – non può essere imposta col fucile puntato da uno straniero, per quanto ben intenzionato. Essa, invece, cresce lentamente, ed esige uno sforzo autoctono, la paziente coltivazione delle istituzioni civiche locali e la creazione di uno spirito civico, che dipende molto dall’istruzione. La lezione di Barber è che i minacciosi eccessi del capitalismo sfrenato e del fondamentalismo religioso possono essere regolati solo da un aumento di democrazia: Un mondo in cui le relazioni economiche, sociali e politiche internazionali fossero regolate democraticamente sarebbe relativamente esente da abissali disuguaglianze e disperate miserie, e di conseguenza meno vulnerabile alla violenza sistematica. Il passaggio dall’indipendenza all’interdipendeza e quindi all’integrazione, richiede per Barber il passaggio dalla logica dell’io a quella del noi. Il grande pregio della democrazia – scrive l’autore – sta nel suo insistere sulla priorità del noi sull’io, della logica civica su quella consumista. In questa transizione dall’io al noi, dall’indipendenza all’integrazione, le religioni hanno per Benjamin R. Barber un ruolo fondamentale: In democrazie prive di valori legati a concezioni etiche e religiose, solidarietà, unità e vitalità democratica sono a rischio. Infatti, la religione garantisce la solidarietà e l’unione di una società libera, e le offre un saldo fondamento su cui basare i doveri morali e politici. Per questo, una società liberale sana è una società tenuta insieme da valori comuni, anche se pluralista e tollerante. Non fa guerra alla religione: fa spazio per le religioni. È in questa logica interdipendente del noi, che sta dunque l’opportunità per rendere compatibili il bisogno di sicurezza ed il valore della libertà. A congiungerle è la democrazia: Contro la vera democrazia, contro quanti col loro impegno di cittadini danno vita ad una vera democrazia, l’impero del terrore è impotente.

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