Il nucleare, l’anima giapponese e il loto

Mentre il mondo assiste impotente alla tragedia giapponese, cerchiamo di capire con l’autore di Città nuova Cinto Busquet, ragioni e atteggiamenti di un popolo che con dignità cerca di risollevarsi
Fiore di loto

Il termine giapponese «hisu» sta ad indicare il loto, fiore sacro tanto agli orientali in virtù di quel suo affondare le radici in acque stagnanti, cercare la vita sulla sua superficie, pur rimanendo immacolato e delicato. Stessa tenacia e bellezza del popolo nipponico che nemmeno il terribile terremoto e conseguente tsunami che ha colpito l’11 marzo la parte Nord-Est del Giappone, sembra aver distrutto e portato via assieme alle 11 mila vittime stimate finora.

 

Ha imparato a conviverci, trovare soluzioni e a contenere i danni provocati della veemenza della natura il popolo giapponese, ma non stavolta. L’imperatore – come 66 anni fa fece suo padre alla radio –, ha parlato alla nazione attraverso la tv. Ancora una nuova scossa è stata registrata alcuni giorni fa – di magnitudo superiore al sesto grado della scala Richter –, ma ciò che preoccupa maggiormente le nazioni di tutto il mondo al momento sono le conseguenze delle fughe radioattive.

 

Di nuovo il nucleare. Il ricordo torna inesorabile al terribile fungo che nell’agosto 1944 spazzò via le città Hiroshima e Nagasaki e che ora incombe su Fukushima. Stavolta non c’è nessuna guerra di mezzo, ma alla gravità della situazione dei reattori della Tepco – ampiamente proclamata da più parti nel mondo –, fa eco la flebile e cauta fuoriuscita di notizie giapponesi. Atteggiamento prudenzialistico o le motivazioni travalicano il nostro orizzonte culturale?

 

Difficile dire ad oggi se per il Giappone si stia chiudendo un periodo costruito a fatica dopo il 1945. Quel che è certo e sotto gli occhi di tutti è l’atteggiamento dignitoso mostrato di fronte alle difficoltà – mistero e fascino per l’Occidente –, che ci interpella oggi più che mai nell’incontro e nell’approccio con l’Oriente, in un’interazione che non sia più semplicemente economica, ma anche culturale e spirituale.

 

Cinto Busquet, spagnolo di origine catalana, autore per Città nuova di due libri – uno su Nikkyo Niwano e l’altro sull’incontro tra Occidente ed Oriente –, nella terra del Sol Levante ha trascorso diciassette anni spartiti in maniera diseguale tra Tokyo e Nagasaki. A lui – che quella cultura l’ha respirata a fondo –, abbiamo rivolto delle domande.

 

Il modo in cui il popolo giapponese sta affrontando la situazione contingente ci meraviglia come occidentali. Tutti aiutano tutti anche solo per portare nell’area prossima a Fukushima spaghetti e conforto…

«L’origine di questo atteggiamento è nel senso giapponese, e più in generale orientale, dell’ “essere parte di un tutto”, dove per tutto si intende la collettività, avvertito in questo preciso momento storico come se una parte del corpo soffrisse e avesse bisogno di cure. Questo è il frutto dell’educazione e dell’identità basica del popolo giapponese, acquisita nei secoli per fattori storici e anche geografici. Non si tratta di un’etica imposta, ma di sensibilità acquisita. Sono molte le notizie che ci giungono di persone che hanno aperto le porte delle loro case agli sfollati. Un’accettazione piena della condizione che non è “fatalità”, ma un senso di determinismo cosmico, di uno stare all’altezza. Il giapponese non si ribella, ma accetta situazioni quali i disastri naturali o le situazioni sociali difficili».

 

Come in una grande famiglia "allargata"?

«L’ “io devo fare la mia parte”, ha valore civilistico e affonda le proprie radici nella tradizione confuciana e nell’istituzione imperiale giapponese. A differenza del mondo latino in cui l’idea diffusa è che il singolo diffida dallo Stato, lo critica anche aspramente, la cultura giapponese crede nella forza del Paese. Esemplificativo fu per me –  per entrare appieno in questa cultura –, la prima volta che sono uscito dal Giappone con un gruppo di ragazzi destinazione Filippine. Ci erano stati donati dei manghi che avevo prudentemente distribuito tra i giovani per avere la certezza che almeno qualcuno passasse la dogana. Com’è finita? I ragazzi li hanno consegnati alle autorità con una tale fiducia che ne rimasi colpito. Lì ho compreso il valore del collettivo per i giapponesi e la fiducia riposta nello Stato».

 

Si parla spesso di sincretismo per la cultura giapponese, mix di tradizione e Occidente. Quanto è vero?

«Il Giappone è un territorio ben identificabile da un punto di vista geografico per il fatto che è composto da diverse isole. Questo ha permesso che l’identità si definisse contemporaneamente al suo interno e dal portato delle invasioni. È stato dal VI secolo che il Giappone si è aperto alla cultura cinese sia per quanto riguarda la scrittura – con l’introduzione degli ideogrammi cinesi e la creazione di due alfabeti fonetici complementari –, sia per quanto concerne la cultura in generale. Alla religiosità giapponese autoctona fondata sull’elemento naturale e definita come scintoista, sono subentrati il buddhismo – la religione di cultura che fornisce risposte ai grandi interrogativi esistenziali –, e il confucianesimo: un sistema di pensiero che dopo secoli è ancora alla base dell’organizzazione sociale e politica del Giappone. Parlerei più che di sincretismo, di un’identità autoctona forte nell’assimilare con una sensibilità propria “alla giapponese” ciò che proviene dall’esterno, con una criticità direi quasi ermeneutico-interpretativa».

 

Questo ci interroga in profondità sulla nostra cultura e sulla sensibilità di approccio alle varie sfaccettature dell’umanità…

«Il popolo giapponese ha un “cuore religioso”, ma non una vera e propria filiazione religiosa. Una sensibilità al patire espressa concretamente nella solidarietà. Nel post-terremoto e nel post-tsunami è tutto il Paese a dover superare questa situazione, compresa l’incertezza delle fughe radioattive. Allo stesso tempo c’è anche un gran fermento delle Caritas, delle istituzioni religiose di matrice cristiana, buddhista o scintoista, ma non è la religiosità che dà esplicitamente l’input, è piuttosto la sensibilità culturale che al suo interno ingloba la religione. Una religione che esprime il ciclo della natura, nel quale l’uomo è inserito armonicamente. È questa concezione profondamente legata allo scintoismo e al buddhismo ad infondere forza per compatire e con-gioire; anche nel superamento della grande catastrofe».

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