Il mondo di Constanza

Una grande sala d’attesa dalle pareti di vetro. Stazione di bus, consultorio, anticamera prima di un’audizione, è un luogo di incontro temporaneo, dove si condivide un tempo immobile con persone estranee. Ci si scruta, si tenta un approccio, si lascia libero corso ad azioni incontrollate. In questa terra di tutti e di nessuno, dove ci si dibatte fra il desiderio di restare chiusi nel proprio mondo e di fuggire in un’altra realtà, esplodono improvvise tensioni, paure, abusi, con momenti surreali e comici. È l’orrore del quotidiano, l’illusione del successo, la nevrosi del benessere, la ricerca di un’identità, che Constanza Macras indaga in Big in Bombay, spettacolo nato da alcuni viaggi in India ma che di essa ha solo spunti soprattutto di danza corale in stile Bollywood, l’Hollywood indiana. E a citazioni cinematografiche di quel mondo eclettico, chiassoso e colorato, rimanda lo spettacolo. Danzatrice argentina, formatasi a New York poi ad Amsterdam quindi a Berlino dove ha fondato la compagnia Dorky Park, la Macras è oggi coreografa richiestissima, con residenza alla Schaubühne am Lehniner Platz. Il suo è uno sguardo cinico e divertito sulla globalizzazione per raccontare il mondo di oggi filtrato dalle ossessioni, dai contrasti e dalle paure da esso generate. In Big Bombay entra fortemente in scena la paura del terrorismo e quella causata dalle forze naturali. Con associazione di idee e di immagini di vaneggiante fattura, lo spettacolo crea un quadro in apparenza armonioso che presto si distorce in atti estremistici, in deflagrazione d’odio e di violenza, con richiami all’attualità e alla politica (come la storia argentina da Peron a Menem, le menzogne e gli abusi, detta velocissimamente da un danzatore seduto). Ricorda a tratti il teatrodanza di Alain Platel e quello di Pina Bausch al quale la Macras si ispira. Ma il suo, vive di una drammaturgia più urbana in cui la mescolanza di diversi linguaggi espressivi genera deliranti affreschi metropolitani, che inglobano la cultura trash, la pop art, il video, la musica. Ecco allora i quindici interpreti che danzano, recitano, suonano e interagiscono, secondo i ritmi e i contenuti propri della pubbliÈcità, dei notiziari televisivi stile Cnn e Mtv. Si raccontano attraverso inserti video o in diretta; fuggono, si ritrovano in danze corali, confessano fantasie suicide, indossano le maschere di Mickey Mouse, o dei passamontagna. C’è chi è armato di un fucile, chi minaccia con un’ascia, e chi tira bottiglie di plastica. C’è un coreografo che urla ad una coppia di danzatori mentre provano, due s’insultano in arabo e in ebraico, mentre una serie di carrozzine e carrelli della spesa sfilano sulla canzone El condor pasa. Sono tutti dentro un film (o nella realtà?), e questo dà il senso all’accumulo vorace, estremo e ricco di humour, dello spettacolo, al quale gioverebbe uno sfoltimento. È, comunque, la danza la sua principale forza. E momenti di indimenticabile presa. Come la fitta pioggia e le raffiche ventose di un ventilatore, che sorprende tutti nel disperato tentativo di salvarsi dalla violenza di uno tsunami. Un uomo – l’unico sopravvissuto alla catastrofe – danza, forse prega, coi suoi movimenti lenti e sofferti; infine s’alza a raccogliere per terra ad uno ad uno i corpi senza vita, accatastandoli. Giuseppe Distefano Al Teatro Comunale di Ferrara, per Prime Visioni Festival

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