Il modello Uganda

Le statistiche sull’Aids nel mondo sono spaventose. 20 milioni di morti e altri 30 milioni di contagiati dal virus. Nei paesi in via di sviluppo, solo nel 2001 erano circa 800 mila i bambini sotto i 15 anni contagiati, e sapendo che i giovani tra i 15 e i 24 anni rappresentano un terzo dei contagiati viventi, i numeri delle statistiche dell’Uganda non riflettono l’andamento generale. Nel 1991, il 15 per cento delle donne ugandesi in gravidanza era risultato affetto da Hiv positivo. Nell’anno 2001, tuttavia, tale percentuale è scesa al 5 per cento, in netto contrasto con l’aumento del 10-20 per cento nelle altre nazioni africane nello stesso periodo. Inoltre in un’area urbana dell’Uganda l’attività sessuale tra minori è drasticamente diminuita dal 60 per cento nel 1994 e a meno del 5 per cento nel 2001. Ugualmente sorprendenti i cambiamenti avvenuti nei rapporti tra adulti. Secondo alcuni esperti, tra i fattori che più hanno contribuito al calo dei casi di Aids in Uganda sono da annoverare la maggiore fedeltà nei matrimoni, i rapporti monogamici e la corrispondente diminuzione nel numero di partner sessuali. Qual è la radice di tale successo? La battaglia contro l’Aids è iniziata nel 1986, guidata dal presidente in persona, Yoweri Museveni. A differenza di altri paesi, in Uganda la lotta al virus è stata fin dall’inizio rapida e decisa, coinvolgendo ogni settore della società. Museveni ha incoraggiato personalità civili, politiche, religiose, del mondo dello sport e dei media, a parlare efficacemente contro i rischi dell’Aids e su come prevenirlo. Questo tipo di campagna è stato considerato da altre nazioni, come pure da esperti a livello mondiale, inefficace contro il virus. E tuttavia i risultati positivi non sono tardati ad arrivare. Enormi cartelli pubblicitari e campagne di informazione hanno iniziato a circolare ad ogni livello. Donne e ragazze adolescenti, in particolare, venivano incoraggiate ad agire in modo da salvaguardare la propria dignità, controllandosi nei rapporti con uomini. Si è parlato apertamente di fedeltà nel matrimonio, e questo comportamento è stato indicato come una via per fermare il virus e salvare vite umane. In questo modo gli ugandesi sono stati informati non solo dei pericoli connessi a questo male, ma hanno ricevuto anche proposte di cambiamento nello stile di vita, di cui mai si era parlato prima in pubblico. Un altro punto centrale nella guerra all’Aids erano le discussioni sul tema dell’astinenza, in scuole, villaggi, parrocchie e centri religiosi. In effetti, un sondaggio nazionale ha segnalato, solo nel 2000, un aumento di oltre il 20 per cento nell’uso di pratiche di astinenza, e individuato nel ritardo dell’attività sessuale da parte dei giovani uno dei maggiori contributi al successo delle statistiche. Di certo a influenzare maggiormente lo stile di vita delle persone è stato proprio l’impegno educativo dei capi religiosi. La diminuzione più sensibile nei livelli di Aids si è rilevata tra il 1991 e il 1995, con un generale andamento tuttora descrescente. Purtroppo, il successo ugandese non ha avuto la pubblicità che avrebbe meritato. L’Uganda è stato il primo paese a pubblicizzare una strategia comprendente un cambiamento di stile di vita, che è poi al cuore del suo successo, ha affermato Dorothy Brewster-Lee, coordinatrice dei ministri per la salute pubblica della Chiesa presbiteriana negli Usa. L’Uganda è stato l’unico paese che sia riuscito a dare la volta alla situazione dell’Aids. L’auspicio ora sarebbe diffondere questo tipo di informazione in tutta l’Africa. Sembra stia diminuendo la pressione ad usare la strategia del solo preservativi rivelatasi di effetto scarso, o almeno non duraturo, secondo i dati raccolti in tutto il mondo. Forse i grandi sforzi dell’Uganda in difesa della sua popolazione potranno ora andare a beneficio di altri popoli. Lo scorso aprile, rappresentanti di 35 organizzazioni religiose non governative degli Stati Uniti si sono incontrati per una conferenza dal titolo: Aids e bambini: come rafforzare partnership e risposte. Scopo dell’iniziativa era aprire un dialogo tra forze religiose e programmi Unicef nel mondo. La necessità di collaborazione si fa sempre più pressante, quanto più l’incidenza dell’Aids nei paesi in via di sviluppo si fa acuta soprattutto tra i giovanissimi, con maggior rischio per le adolescenti. Centinaia di migliaia di bambini rimangono orfani e molti di loro finiscono sulla strada. Nella conferenza si è discusso dell’attuale situazione mondiale, delle iniziative in corso nella lotta contro l’Aids, e ci si è scambiati progetti e speranze per una efficace collaborazione. Le organizzazioni a base religiosa – ha commentato Rabia Mathai della Catholic Medical Mission Board – sono direttamente coinvolte e attive nelle comunità dove c’è più bisogno. Lavorano all’interno delle stesse comunità e possono far uso della rete di assistenza o sostegno esistente in città e villaggi. Nei villaggi rurali – ha precisato -, questo tipo di organizzazione offre anche oltre il 50 per cento della cura per i malati di Aids e le loro famiglie . Meg Gardiner, direttrice delle Ong presso l’Unicef, ha sottolineato che i gruppi a base religiosa fanno quanto i governi non riescono a fare. Da molto tempo ormai queste organizzazioni sono all’avanguardia nella lotta contro l’Aids. Ora è tempo di collaborare maggiormente. A conferma di ciò, l’Unicef, in collaborazione con la Wcrp (Conferenza mondiale delle religioni per la pace) ed il programma dell’Onu contro l’Aids ha pubblicato un manuale informativo intitolato: Cosa possono fare contro l’Aids i responsabili di gruppi religiosi. Con i loro programmi di prevenzione, oltre che di cura fisica e spirituale delle vittime dell’Aids e delle loro famiglie, le organizzazioni religiose dell’Uganda hanno giocato un ruolo essenziale nella lotta contro il virus. Abbiamo intervistato Rose Busingye, insignita a New York del premio Servitor Pacis dalla fondazione Sentiero per la pace. Nata nel 1968 a Kampala, come la maggioranza degli ugandesi Rose ha vissuto la tragedia della guerra civile negli anni Ottanta. Dopo il conflitto, per aiutare la sua gente, è diventata infermiera e levatrice e si è specializzata in Italia in malattie infettive. Tornata in Uganda nel 1992, Rose ha seguito corsi di specializzazione per la cura dell’Aids. Quello stesso anno ha fondato Meeting Point Kampala, un centro dove malati e familiari potevano trovare oltre alle cure mediche anche quel senso di comunità così vitale per la società ugandese. Centri simili si sono diffusi in altre zone povere della città. In essi, tra le persone impegnate nel volontariato, si potevano notare le mogli di molti ambasciatori di altri paesi in Uganda, oltre a quelle di molti politici ugandesi. Dagli sforzi di Rose, nel 2002 è nato Meeting Point International (Mpi) per l’aiuto alle vittime dell’Aids e la prevenzione della diffusione del virus. Tale organizzazione si prende cura annualmente di oltre 600 malati, fornendo aiuti materiali e consulenze familiari; programma inoltre corsi educativi nelle comunità più povere del paese. Spesso sono i giovani stessi, a volte malati, ad offrirsi come insegnanti per i bambini e ragazzi. Inculcare loro l’astinenza, la fedeltà e il rispetto verso sé stessi e verso gli altri è il principale insegnamento di Rose. Nel nostro paese il virus è scoppiato dopo la guerra – ci diceva Rose -. Le famiglie erano distrutte, allontanate dalle loro case, vivevano in campi di rifugiati. Molti bambini divenuti orfani vagabondavano per le strade ed erano trattati come oggetti. Parlando dei primi anni di lotta contro l’Aids guidata da Museveni, Rose commentava: Fin dall’inizio il presidente ci ha esortato a tornare alle nostre tradizioni. Far parte di una grande famiglia, di una comunità, infatti, è essenziale. Quando un bambino non sa cos’è una casa, una famiglia, perde il valore della vita. E quando qualcuno viene trattato come una cosa, inizia a trattare gli altri alla stessa maniera. La sua voce pacata riflette una convinzione forte come una roccia: Bisogna prima ridare a ciascuno la sua dignità, il senso del suo valore insostituibile come essere umano. Può essere un’impresa ardua, ma solo questo poi funziona. Questo è il principio base che è l’anima di tutto quanto viene fatto al Mpi. Se si insegna ai giovani che hanno un valore, che sono amati, poi a loro volta, imparano ad amare e a trattare gli altri come loro vengono trattati. Rose si mette a ridere ricordando la sorpresa di specialisti europei in visita al Mpi. Mi hanno chiesto quale medicina somministrassi perché, a sentire loro, non avevano mai visto malati di Aids così vivaci e felici. Alcuni, addirittura, mettendo in dubbio che fossero effettivamente malati, mi hanno chiesto la documentazione che comprovasse che lo erano. Il premio Servitor Pacis viene attribuito a persone che nei campi più disparati hanno speso la loro vita con lo scopo e il desiderio di essere dove c’è il bisogno più grande, e divenire così fari di speranza. Sembra proprio il premio giusto per Rose Busingye e Mpi, veri fari di speranza tra i molti che esistono in Uganda e nel mondo.

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