Il modello Penelope, ovvero: la politica inutile

In un paese serio, che si preoccupi di costruire il proprio futuro, il lavoro politico dovrebbe procedere, per così dire, per accumulo: un governo dovrebbe cominciare dove il precedente ha finito, ampliando, rinforzando, portando a termine ciò che era stato cominciato. Naturalmente, ci possono essere correzioni di rotta, sterzate anche brusche, rese necessarie dalle circostanze o dal manifestarsi di risultati deludenti. Ma in un paese serio, appunto, un governo e una maggioranza non dovrebbero dedicarsi a distruggere e rifare le leggi della maggioranza e del governo precedenti; se così fosse, buona parte del tempo e delle energie verrebbero costantemente assorbite dal mero conflitto tra visioni contrapposte, anziché dal lavoro per il bene comune. La competizione – e il potere che essa fa conquistare – diventerebbe il fine, anziché essere il mezzo della politica. Un paese dove una metà si dedica a disfare ciò che ha fatto l’altra metà, non può che rimanere indietro rispetto agli altri paesi e alle esigenze dei suoi cittadini. È su questa strada che l’Italia si è avviata dal momento in cui i suoi governi hanno cominciato a cambiare a colpi di stretta maggioranza aspetti della vita collettiva che avrebbero dovuto, invece, essere modificati col più ampio consenso. Merito imperituro di avere iniziato in questa corsa va al centro-sinistra della precedente legislatura, con la sua riforma federale varata all’ultimo minuto; ma il centrodestra dell’attuale legislatura sta facendo di tutto per stabilire nuovi record. Due, in particolare, sono le materie che richiedono un consenso trasversale per essere cambiate: la Costituzione, che è il fondamento e fornisce il quadro di tutta la vita pubblica, e le leggi elettorali, che regolano la competizione. Su entrambi i fronti, in Italia, stiamo disfacendo ciò che avevamo costruito e costruendo ciò che sicuramente sarà disfatto. Cominciamo dalla cosiddetta devolution, la ragion d’essere della presenza della Lega al governo – e, dunque, la riforma che l’attuale maggioranza doveva varare per forza, per poter continuare a contare sulla Lega – che ha assorbito grandissime quantità delle energie politiche di questi anni: incontra l’opposizione radicale del centro-sinistra e ha scarsissime possibilità di diventare legge. Infatti, approvata a stretta maggioranza dal parlamento, dovrà essere sottoposta a referendum – come è previsto per le riforme costituzionali varate senza una maggioranza qualificata, trasversale – il prossimo anno, dopo le elezioni politiche: è fortemente improbabile che esista, nel paese, una maggioranza favorevole alla devolution, dato che molti, anche nel centro-destra, l’hanno dovuta mandare giù senza riuscire a digerirla. In molti parlamentari, di entrambi gli schieramenti, si fa sempre più evidente un senso di frustrazione, com’è comprensibile in chi sa di lavorare per niente. Il secondo caso, che pure sta entrando e uscendo a velocità supersonica dalle nostre aule parlamentari, riguarda la riforma elettorale che reintroduce un sistema proporzionale. Come è noto, nel 1993 avevamo abbandonato il sistema elettorale proporzionale in favore di un maggioritario corretto o spurio, che continuava cioè a distribuire il 25 per cento dei seggi in maniera proporzionale; con tale sistema abbiamo votato dal 1994 al 2001, sperimentando una effettiva alternanza tra due coalizioni e una continuità di governo mai conosciuta prima. Tutti ricordiamo l’enfasi che accompagnò il passaggio al maggioritario e che generò in molti aspettative di miglioramento della vita politica davvero eccessive; non si teneva conto che il sistema elettorale, da solo, non può cambiare il sistema politico, se non viene accompagnato da un cambiamento nelle istituzioni e nelle culture politiche. Inoltre, un maggioritario vero e proprio non lo abbiamo mai avuto: il mantenimento del 25 per cento di quota proporzionale provocava infatti rilevanti distorsioni negli effetti che il maggioritario avrebbe dovuto portare. Ma, in ogni caso, il cambio nel modo di votare fu uno degli aspetti principali di quello che fu addirittura definito il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica; nonostante tutto, nel paese ci fu davvero un ampio dibattito, una partecipazione effettiva testimoniata da un referendum riuscito. Ebbene, lo smantellamento del maggioritario cui abbiamo assistito in queste settimane, è stato ac- compagnato da un dibattito e da una partecipazione analoghi? Ci siamo forse interrogati, collettivamente, sugli esiti di questo decennio di maggioritario, concludendo, ad ampia maggioranza, che era necessario cambiare? Insomma, la riforma elettorale è espressione di una volontà comune di fare meglio, di quella capacità cioé di accumulare politicamente che fa avanzare un paese? La risposta è no, e ci viene proprio dalla maggioranza di governo che ha voluto la riforma, e l’ha spiegata con la volontà di ridurre i margini di sconfitta o addirittura di cercare di rovesciare i pronostici delle elezioni politiche del prossimo 9 aprile, oggi sfavorevoli al centro-destra. Quali sono i punti qualificanti della riforma e che cosa provocano all’interno delle coalizioni? Anzitutto, vengono aboliti i collegi uninominali: i parlamentari si eleggono in base alla percentuale dei voti ottenuti dai partiti: su base nazionale per la Camera, su base regionale per il Senato. Ciò significa che la maggior parte dei partiti esistenti è in grado di eleggere parlamentari con le proprie forze, senza doversi accordare con gli altri. La nuova legge pone degli sbarramenti facilmente superabili: per ottenere dei parlamentari, un partito deve ricevere almeno il 4 per cento dei voti; ma se si collega ad altri partiti, la soglia si abbassa al 2 per cento; una coalizione di partiti deve superare il 10 per cento. La logica di coalizione viene salvata attraverso due dispositivi: ogni coalizione deve indicare il proprio capo, quello che, in caso di vittoria, dovrebbe diventare (non automaticamente, ma per scelta del presidente della Repubblica) il presidente del Consiglio; inoltre, la coalizione che ottiene il maggior numero di voti riceve un premio di maggioranza tale da ottenere 340 deputati alla Camera, e il 55 per cento dei seggi (calcolato regione per regione) al Senato. In realtà, però, i singoli partiti di una coalizione non potranno evitare di entrare in competizione fra loro. Un altro aspetto rilevante, che riguarda direttamente la libertà di scelta dei cittadini, è il fatto che le liste sono bloccate: nelle schede elettorali infatti, ci sarà un elenco di candidati che verranno eletti uno dopo l’altro, in base all’ordine dell’elenco. Sia i candidati sia il loro ordine è scelto dai partiti: al cittadino rimane solo di scegliere il partito, e non anche la persona, come poteva fare nella precedente versione del proporzionale. Il lettore di centro-sinistra non si stracci le vesti per l’indignazione: questo modello a liste bloccate ricalca la legge elettorale della regione Toscana, voluto, in quel caso, dal centro-sinistra: costituisce una limitazione della libertà di scelta dei cit- tadini e manifesta una debolezza dei partiti, che vogliono garantirsi un forte controllo sui loro eletti. Che cosa provoca questa riforma all’interno delle due coalizioni? Essa è, in effetti, la risposta che il presidente Berlusconi ha voluto dare a chi, all’interno del centro destra, parlava di fine del ciclo berlusconiano, e poneva il problema della leadership: dato che i partiti conteranno i propri voti alle elezioni, si ritiene inutile procedere alle primarie per la scelta del leader. Ma proprio questo era il problema; si sa già che il partito del presidente è più forte degli altri e che, per questo, ha diritto a proporre il proprio capo come capo della coalizione; ma in questo modo il centrodestra ha perso tutte le elezioni della legislatura. La forza dei singoli partiti e la figura del capo della coalizione sono cose diverse: gli elettori del centro- destra, in base ai sondaggi disponibili, conferiscono a Fini e a Casini un consenso molto superiore alla forza dei rispettivi partiti. Certamente la riforma danneggia Prodi, che ha lavorato fino ad ora nella prospettiva del maggioritario e, dunque, investendo molto nel processo unitario del centro-sinistra. Fino a ieri, il Professore era stato il candidato dell’Unione, ponendosi al di sopra dei partiti che la compongono; ora ritornano in campo i partiti e il leader del centro-sinistra deve candidarsi con uno di essi. Per il centrosinistra la riforma è una mela avvelenata pure da un altro punto di vista: anche in caso di vittoria, si troverebbe con una coalizione fortemente frammentata, poiché ognuno dei partiti che la compongono sarebbe dotato di forza propria, non avendo più bisogno degli altri per eleggere i propri deputati. La frammentazione è deleteria, anche perché molto più visibile, per chi è al governo. La riforma, in conclusione, sembra tutta schiacciata sulla convenienza del momento, e piuttosto spensierata circa le conseguenze per la stabilità del sistema. Uno dei suoi esiti più importanti, infatti, è che si apre la strada alla possibilità di una terza coalizione di centro. In tal caso, dalle elezioni potrebbero uscire tre forze politiche, tutte con percentuali fra il 20 e il 30 per cento e, dunque, tutte minoranze; ma una di esse – la maggiore fra le tre minoranze – agguanterebbe il premio che la porterebbe ad avere, comunque, 340 seggi alla Camera, senza alcuna necessità di cercare ulteriori alleanze. Fino a che punto si sono soppesati tutti questi diversi aspetti di instabilità futura nel mettere in atto la riforma elettorale? La mancanza di convergenza tra maggioranza e opposizione, come invece dovrebbe avvenire quando si toccano le regole del gioco e le istituzioni fondamentali, potrebbe rivelarsi in futuro ancora più negativa di quanto appaia oggi. La devolution, molto probabilmente, cadrà da sola; un centro-sinistra vittorioso potrebbe trovare irresistibile la tentazione di rimettere mano alla materia elettorale e ad altre, che il centro-destra ha confezionato completamente da solo, a cominciare – è già stato promesso – dalla riforma della magistratura. È un fare e disfare continuo che rende la politica – se ci va bene – inutile. Ciò di cui abbiamo bisogno oggi, invece, è di riprendere uno spirito ricostruttivo, come se dovessimo rimettere in piedi il paese dopo una guerra, tali e tante sono le sfide che ci vengono lanciate dal mondo contemporaneo. E, per riuscirci, bisogna riprendere a parlarsi e ad ascoltarsi; a meno che non si voglia passare alla storia con l’etichetta di politici inutili.

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