Il grande esodo

Più di 7.200 persone hanno aderito alla più grande “catena di migrazione” negli ultimi anni in America Latina verso Nord. In maggioranza sono honduregni che cercano di raggiungere gli Stati Uniti, ma non solo. Un’analisi dal centroamerica

Sono passati otto giorni da quando Gilberto Gálvez ha lasciato l’Honduras accompagnato da suo figlio di sei anni. A volte la debolezza fisica lo tradisce e sente di non poterlo più fare. Camminando ha attraversato tutto il Guatemala e oggi è intrappolato al confine con il Messico. La convinzione che niente potrebbe essere peggiore che tornare a casa lo fa rialzare: «Ho lasciato l’Honduras – dice – perché se restassi lì morirei di fame. Non c’è lavoro e non voglio tornare. Se non possiamo andare avanti, rimango in Messico, dove spero mi diano rifugio». In Honduras ha lasciato sua moglie e un altro bambino di tre anni. Lui e suo figlio fanno parte di quello che è stato definito “l’esodo dei migranti”.

Le immagini aeree del ponte Rodolfo Robles, che collega Guatemala e Messico, mostrano centinaia di persone che, agglutinate lungo i 500 metri del ponte, sembrano una fila di formiche. Ma ci sono ancora bambini, madri, padri e giovani che per il terzo giorno stanno aspettando che le autorità messicane aprano le loro porte, permettano loro di attraversare legalmente il Paese e di spostarsi verso Nord. Da quando il primo gruppo di migranti dell’Honduras è arrivato in Guatemala, il giornalista Óscar de León ha seguito la strada della carovana e ora, dal confine, descrive le condizioni precarie in cui le persone rimangono. «Il ponte – afferma de León – e altri angoli intorno ad esso sono diventati bagni pubblici, luoghi dove dormire, mangiare e vivere allo stesso tempo. Le persone sono in condizioni disumane e il pianto dei bambini è sempre più costante». Commosso dalle scene che ha visto soprattutto nelle ultime ore, si lamenta: «Come giornalista, ho dato tutto, in quanto essere umano breve, questa situazione mi spezza il cuore».

Ma la carovana non trasporta solo i migranti. Porta con sé anche una serie di dibattiti e discussioni politiche. La più importante di queste è stata la misura che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato su Twitter lunedì, in cui ha assicurato che gli Stati Uniti inizieranno «a ridurre, o a ridurre sostanzialmente, i massicci aiuti stranieri che di solito sono concessi» a Guatemala, Honduras ed El Salvador. L’analista e consulente sulle questioni migratorie, Pedro Pablo Solares, ritiene che per i governi di questi Paesi sia urgente affrontare la minaccia lanciata da Trump, perché «il governo Usa attraverso Usaid dà la priorità allo sviluppo di programmi di cooperazione nelle aree più vulnerabili per ridurre la disuguaglianza economica, che è precisamente una delle cause più forti per cui la popolazione migra». Per l’anno fiscale 2018, gli Stati Uniti avevano stanziato 68 milioni di dollari in Honduras, e entro il 2019 si prevede di consegnare quasi 66 milioni di dollari.

Solares sottolinea anche il fatto che, prima delle elezioni legislative del 6 novembre, Trump ha dato un profilo politico alla situazione, sottolineando che i democratici non avevano voluto cambiare le leggi sull’immigrazione del Paese. Inoltre, ha avvertito che militarizzerà il confine meridionale degli Stati Uniti per impedire il passaggio della carovana e ha affermato che l’ondata di migranti diretti verso il Paese è una «emergenza nazionale».

Ma le minacce di affrontare un esercito armato non bloccano la carovana migrante che cresce con il passare dei giorni e non è più formata solo da honduregni. Si sono anche uniti salvadoregni e guatemaltechi. Lungo la strada hanno trovato centinaia di mani di solidarietà che danno loro acqua, cibo o mezzi di trasporto. «Lo faccio per i bambini, perché mi dà molta tristezza vedere cosa devono vivere», racconta il pilota di un autobus che trasportava i migranti verso il confine con il Messico. Quando ci si arriva, le possibilità sono tre: tornare a casa con il trasporto gratuito offerto dai governi, cercare di entrare legalmente in Messico, o prendere una zattera, attraversare il fiume Suchiate che divide Messico e Guatemala e entrare illegalmente nel territorio messicano.

APTOPIX Central America Migrant Caravan

Quest’ultima opzione è già stata presa da almeno 2 mila honduregni. Due giorni fa la maggior parte di loro è arrivata a Tapachula, una città nel Sud del Messico, nello stato del Chiapas. Lì la polizia federale li osserva, ma ha l’ordine di non fermarli, solo di proteggerli. I migranti non si fidano di coloro che si offrono di trasportarli, per paura di essere ingannati e deportati, quindi preferiscono camminare. Tra la folla c’è una signora accompagnata dal marito e tre bambini sotto i 5 anni. Quando avevano lasciato l’Honduras, avevano portato con loro 3 carrozzine. Una settimana dopo, e percorsi centinaia di chilometri, ne rimane solo una e la famiglia non sa come continuare il viaggio con i bambini in braccio. Il piano era quello di riposare almeno un giorno nel Chiapas, ma i camminanti temono di essere attaccati dalle bande che operano in quella regione e così, nonostante la stanchezza, preferiscono continuare a muoversi, con l’unica certezza dell’incertezza. Cibo, salute, trasporti e sicurezza non ce li hanno, ma nemmeno l’assenza di essi li ferma. Si fidano del fatto che domani qualcun altro fornirà loro ciò che è necessario per continuare nel loro cammino verso gli Stati Uniti.

 

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