Il gioiello di santa Matrona

Un esempio nel Casertano di come, anche luoghi d'Italia meno raggiunti dal flusso turistico, riservino la sorpresa di autentici capolavori
Il gioiello di santa Matrona

Santa Matrona… chi era costei? Me lo chiedo entrando nella chiesa parrocchiale di San Prisco, piccolo centro del Casertano alle falde meridionali del monte Tifata, che prende nome dal primo vescovo di Capua. Da Rosario, l’amico che mi accompagna, vengo a sapere che secondo la tradizione era una nobildonna cristiana vissuta nel V secolo in Lusitania e attratta fin qui dalla fama dal santo apparsole in sogno e morto martire al tempo dei vandali. Ottenuta miracolosa guarigione dalla dissenteria che l’affliggeva, per gratitudine costruì sopra la tomba del suo benefattore un martyrion corrispondente all’attuale chiesa ricostruita nel XVIII secolo, in una località adibita fin dall’antichità ad area cimiteriale: lo confermerebbero del resto i non lontani e imponenti mausolei noti fin dal Rinascimento sotto il nome di “Carceri Vecchie” e “La Conocchia”. La stessa Matrona, rimasta finché visse a Capua, venne sepolta in un sacello che occupa la parte terminale della navata destra dell’edificio. «E qui – conclude l’amico – ti aspetta una sorpresa…».
Raggiungiamo il piccolo ambiente a pianta quadrata con volta a crociera sorretta agli angoli da quattro capitelli corinzi su colonne di spoglio, provenienti probabilmente dall’antica metropoli campana. Il sarcofago della santa consiste in una grande vasca di marmo giallo tolta forse a qualche edificio termale. Appena attivata l’illuminazione elettrica, rimango senza fiato per la bellezza e la magnificenza di ciò che mi si offre allo sguardo, nonostante le mutilazioni dovute al tempo e all’incuria dell’uomo.

Nei quattro spicchi della volta, delineati agli angoli da altrettante palme,  opulenti tralci di viti carichi di grappoli si irradiano in volute nascenti da vasi dorati, e avvolgono due uccelli affrontati in atto di beccare l’uva. Una rigogliosa composizione di melograni fuoriuscenti da cesti di vimini decora i sottarchi. Nella lunetta al di sopra dell’ingresso, entro un clipeo contornato da foglie d’edera, campeggia un maestoso busto di Cristo barbato e benedicente con ai lati le lettere apocalittiche alfa e omega. Nella lunetta di destra è purtroppo superstite solo il simbolo dell’evangelista Matteo, ossia il busto di un angelo, mentre manca il leone di Marco. Sulla decorazione – anch’essa perduta – della lunetta opposta all’ingresso, c’informa invece un’antica incisione: sopra un monte dal quale scorrevano i quattro fiumi del paradiso si ergeva una Croce gemmata contornata da sei colombe per parte a rappresentare i dodici apostoli. Ma il “pezzo forte” del sacello, che attrae irresistibilmente lo sguardo come un vuoto richiama il pieno e come un’assenza sollecita una presenza, è rappresentato dalla lunetta di sinistra: qui un trono ornato di perle e pietre preziose mostra, poggiato sul ricco cuscino, un rotolo dai sette sigilli, simbolo della Parola di Dio; sulla spalliera la colomba, simbolo dello Spirito Santo, sembra in attesa di Colui che dovrà finalmente spiegare quel rotolo. Affiancano il trono il vitello e l’aquila, simbolo degli evangelisti Luca e Giovanni.

In questo spazio raccolto, intimo, denso di significati espressi da motivi ancora legati al mondo pagano ma trasfigurati alla luce della fede cristiana (si pensi alle palme, alla vite, ai melograni, all’edera… altrettante immagini legate alla realtà ultraterrena e alla ricompensa celeste) la raffinata decorazione in tessere vitree, attribuita alla seconda metà del V secolo, orchestra su un fondo turchese colori brillanti dai toni freddi e lumeggiature d’oro. Nulla da invidiare ai meravigliosi mosaici ravennati: non per niente, insieme ai lacerti nel battistero napoletano di San Giovanni in Fonte, questo di santa Matrona è ritenuto fra gli esempi più insigni d’arte musiva paleocristiana presenti nell’Italia meridionale.
 

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