Il gioco delle arti

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Splendono di un bianco pulito le sale, le volte, gli ampi spazi del Palazzo delle Esposizioni. Più di diecimila mq, articolati su tre livelli, per mostre ed eventi culturali. Dallo scorso ottobre la sede espositiva ha riaperto i battenti, ospitando una triplice rassegna che, nel suo comporsi in spazi distinti ma comunicanti, suggerisce un dialogo concreto fra diverse forme d’arte: la pittura, la scultura, il cinema. Ed è interessante notare il carattere visionario di ciascuna di queste espressioni, in una sorta di analisi contemplativa su ciò che riguarda l’uomo e la sua vita. LE VISIONI DI MARK ROTHKO Nel Tiresia, sotto cui si ritrae l’artista americano, di lui possiamo individuare il percorso artistico e spirituale. Quello di un uomo che, per quanto si consideri cieco come il mitico personaggio, pure, come lui, si sforza di vedere ciò che non si vede. Di rendere visibile il mistero, la realtà altra. Rotko perviene gradualmente a questo raggiungimento e alla sua comunicazione a noi. Nel 1945 dipinge l’olio e carboncino su tela Rites of Lilith: il linguaggio è surrealistico, ma le forme che si individuano nell’intreccio lineare assumono la valenza di una danza musicale di pensieri, di sentimenti. Non c’è più bisogno del corpo umano o della natura espressa; eppure, queste forme extrareali ne suggeriscono le movenze. È come se Rothko seguisse l’anima nel suo viaggiare, e poi nel suo rivelarsi a noi. Ci riuscirà, alla fine, dipingendo tele gigantesche. Non per una mania di grandezza o di esibizione, ma per una necessità. Diventa indispensabile, nel viaggio che, come un Dante del secolo ventesimo, il pittore va compiendo fuori di sé, creare spazi dilatati, dove il colore solo sia la voce comunicante la propria esperienza. Si spiegano così opere che appaiono muri di luce, come il Senza titolo n. 10 del 1952-53. Il percorso è graduale, dall’alto in basso: nasce la luce dal giallo della fascia superiore, si tramuta in un verde chiaro per poi sfolgorare, o meglio figliare, nel giallo intenso che scende e chiude – come in un rapporto a tre che contiene gli altri – nel rosso sangue finale. Viene immediato pensare al paradiso dantesco, ai suoi trionfi di puro lume (o, anche, agli amati Giotto, Angelico, Michelangelo). Anche perché poi Rothko fa seguire a questa esplosione vitale altre visioni grandiose. In esse le fasce cromatiche si distendono in tinte dense, mai grevi, di rossi fiammanti o bianchi accecati, neri o tenerissimi lilla. È come se il pittore seguisse la sua anima dentro un universo in cui contempla le infinite forme dell’essere nella loro peculiarità di luce e colore. Giungendo, poco prima della tragica fine nel 1970, a sfumature impressionanti per delicatezza e liricità. Gli acrilici su tela del 1969 lo vedono dipingere azzurrini, grigi e neri in trasparenza. Fermandosi a lungo davanti alle tele – indispensabile per far parte delle visioni di Rothko – si vedono emergere dal fondo pastoso, come creature che nascono alla vita, le tinte schiarite di un mondo perfetto. Non toccato dal male. Una creazione nuova. Non per nulla Rothko avrebbe desiderato che le sue opere ve- nissero contemplate addirittura nello spazio sacro di una cappella. C’è infatti in esse un afflato spirituale che esige il silenzio. Sono opere nate dall’ascolto di qualcosa di grande, e dal tormento per riuscire ad udirlo e a dirlo. Certi blu o neri intensi descrivono la sofferenza di Rothko per arrivare ad una simile chiarità. Pagata, come spesso succede, con la sua stessa vita. LE ASCESE DI MARIO CEROLI Legno, metallo, paglia, carbone. Cenere, stoffa… Ceroli fa poesia con qualsiasi cosa, libero dalla storia – sembrerebbe – pur di esprimere un modo di cantare che è insieme individuale e corale. Viaggia anche Ceroli, come Rothko. Egli tuttavia insiste su un percorso compiuto insieme: la schiera che cammina – La Cina, del 1966 -, il gruppo che faticosamente cerca un dialogo – Prova d’orchestra, 1979 -. La meta è un cielo stellato di un azzurro innaturale – Ceroli sembra dare un significato metafisico anche alle carte vetrate de Sopra noi il cielo -, aggrappandosi a figure mitiche come la Barba di Saturno. Sempre in composizioni gigantesche, spettacolari. Ma Ceroli non cerca l’enfasi per stupire il pubblico, usando materiali inusuali. Essi diventano al contrario indispensabili, necessari a dire la sua ricerca, spesso drammatica, di una salita verso cieli purificati. Ne è esempio folgorante, e commovente, la grande Prova d’installazione, Paolo e Francesca (legno e polveri colorate, 2007). Due sagome umane, lignee, salgono la scala altissima verso uno spazio aperto: infinito. Ceroli sembra rovesciare la condanna della storia (e di Dante). La colpa dei due amanti è dimenticata. Essi salgono la scala del cielo, liberi dal corpo, verso una dimensione di amore. Così Ceroli, se non nasconde il dolore dell’ascesa, pure la orienta verso un destino luminoso. Esso trasforma i materiali poveri o insignificanti – cenere, polvere, un tronco di legno… – in strumenti di poesia. Questo ci basta. GLI SGUARDI DI KUBRICK Ha osservato tutto dell’uomo, Stanley Kubrick. Con l’occhio cinematografico a cui niente sfugge ha dato forma visibile al detto antico: nulla di ciò che è umano mi è estraneo. La sua era la capacità, perseguita con cura maniacale, di indagare con una insistenza, mai compiuta esteticamente ma necessaria moralmente (Kubrick non era esteta, anche se le sue immagini rischiano la perfezione) la vita umana: cogliendone prima le motivazioni interiori, che poi si estrinsecano nel vissuto. Momento particolare nel suo viaggio intorno all’uomo è il celebre 2001 Odissea nello spazio. La mostra ne ricostruisce il set, con gli appunti del maestro, le foto, i costumi, le scene, le musiche… Dimostra il perfezionismo di un autore che è soprattutto un regista- filosofo che analizza tutto l’uomo. Dalle brutalità e oscenità di cui è capace alla sete di infinito e di conoscenza che gli è connaturale. Logico che finisse per esplorare al termine della vita quell’universo mai abbastanza conosciuto che è l’amore. In Eyes Wide Shut la vicenda di una coppia in crisi alla ricerca della verità sul loro rapporto si scontra crudelmente con la parte di finzione e di ipocrisia a cui troppo spesso si soggiace. Opera difficile, a vari livelli di lettura – nessun film di Kubrick è di immediata comprensione – si solleva lentamente dall ‘ i nvo l u c ro simbolico in cui è compresa per chiudersi, non senza amarezza, in una accettazione della possibilità dell’inganno reciproco. Si direbbe una soluzione amara, come se l’uomo, da solo, fosse incapace di volare più in alto. Lui, Kubrick, il suo viaggio personale l’ha fatto appena concluso il film, passando ad altre, forse più folgoranti, visioni. Mario Dal Bello Mark Rothko. Roma, Palazzo delle Esposizioni, fino al 6/1/08 (catalogo Skira). Stanley Kubrick, fino al 6/1/08 (catalogo Giunti).

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