Il drogato? Un malato da aiutare

«La società vede il tossicodipendente come un vizioso e non come un paziente che ha bisogno di aiuto», dice Horacio Reyser, coordinatore della Commissione nazionale per la Pastorale della tossicodipendenza argentina
Malato
Droga e società: un problema vissuto in maniera molto simile ovunque, che genera sofferenza e condanna e nasce da situazioni di disagio. Eppure, «I tossicodipendenti hanno bisogno di recuperare il senso della vita», spiega Horacio Reyser, coordinatore della Commissione nazionale per la Pastorale della tossicodipendenza dell’Argentina, Paese in cui c’è il più elevato consumo di cocaina e marijuana pro capite dell’America Latina

Perché una persona si droga?
«Ci sono molte ragioni, ma in generale vi è una angoscia esistenziale, un vuoto in un mondo senza speranza come diceva Giovanni Paolo II. Una persona che ha una vita piena, non si droga perché sa che nella vita c’è di tutto: gioia, angoscia e tristezza. Quando si è liberi di agire entro dei limiti si è pronti ad affrontare ciò che viene».
 
Come la società percepisce questo dramma?

«Vi è un’espressione patetica comune a molti genitori che parlano di tolleranza sociale: ". Finché un congiunto, nessun problema" E i dati dimostrano il contrario. La società è abbastanza disorientato, così la Chiesa vuole portare una parola che può illuminare questa piaga, dicendo cose molto chiare e semplici, per esempio, è buon farmaco, perché significa rinunciare alla dignità di essere un uomo libero».

Secondo il World drug report 2010 delle Nazioni Unite, l’Argentina ha il triste primato di essere il più grande consumatore di cocaina e marijuana pro capite in America Latina. Perché?
«Ci sono molte statistiche drammatiche. Per esempio, Plácido Marín Fondazione ha condotto un sondaggio nel 2010, affermando che il 15 per cento degli studenti dell’ultimo anno fa uso di farmaci e il 90 per cento fa uso di alcol. Ma il problema non sono i numeri ma le persone. Sono gli adulti ad avere le maggiori responsabilità». 

I genitori non vedono cosa accade ai loro figli?
«Il problema della droga è conosciuto, ma la gente crede che solo gli specialisti possono fare qualcosa. La cosa più importante, invece, soprattutto per le famiglie, è rafforzare i valori dei figli. Devono trasmettere l’importanza di avere sogni, di credere che una vita migliore è possibile. In Argentina si vive la sindrome di Peter Pan, cioè gli adulti non vogliono crescere. C’è una distorsione enorme e i giovani ne risentono. In Patagonia, per esempio, hanno espresso frustrazione, solitudine, mancanza di incentivi. Del resto, nei sobborghi di Buenos Aires, dove la povertà è estrema, il traffico di droga fa parte del commercio quotidiano normale».
 
Ci sono soluzioni?
«La battaglia alle tossicodipendenze può essere vinta attraverso l’educazione e la prevenzione. L’atteggiamento tipico del tossicodipendente è "voglio questo, e, senza sforzo. Voglio sfuggire l’angoscia, il dolore, la paura”. Al contrario, con l’educazione si insegna a convivere con la frustrazione, l’egoismo, l’edonismo di una società sempre alla ricerca del successo, del piacere». 

Quali modelli di recupero considerate vincenti?
«Serve l’approccio del Vangelo e l’aiuto di una comunità terapeutica, che trasmettono vita e forza spirituale. In questo modo le persone sono meglio preparate a gestire la dipendenza, che è un disturbo biologico, psicologico, sociale e spirituale. Non si deve guardare il tossicodipendente come un vizioso e un violento, ma come un paziente che ha bisogno di aiuto, come uno dei deboli del Vangelo».

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