Il dovere della memoria

Scrive i suoi libri (tradotti in molte lingue) non in tedesco, la madrelingua, ma in italiano. E sono libri che non lasciano tranquilli, con una carica dirompente, compresi quelli destinati ai giovanissimi: perché anche le nuove generazioni, anzi soprattutto quelle, devono sapere cosa è stato il nazismo. Parlo di Helga Schneider, nata nel 1937 a Steinberg (ora Polonia), cresciuta a Berlino e rimpatriata in Austria nel 1948. Dal 1963 vive a Bologna, dove ha collaborato con diversi giornali e acquisito la cittadinanza italiana col suo matrimonio. La Schneider appartiene a quella categoria di autori che scrivono di ciò che hanno visto e vissuto sulla propria pelle. La sua opera quindi ha uno speciale sapore di autenticità; non è tanto una analisi del fenomeno nazismo, ma piuttosto la lezione di vita – senza commiserarsi o fare la vittima – di una donna che ha sofferto ed è stata testimone di orrori inauditi in uno dei periodi più tragici della storia europea. Più testimone che scrittrice? L’uno e l’altro, perché il c’ero anch’io, nel caso della Schneider, si traduce in consumata abilità narrativa, capace di far rivivere eventi passati – è stato detto – attraverso un’estrema attenzione ai particolari concreti e alla dinamica degli stati d’animo, oltre ogni compiacimento e retorica. I suoi libri costituiscono tutti un unico viaggio della memoria, un indagare antiche ferite per capire, per dare un senso a ciò che si è vissuto, purificandolo dalle scorie Operazione tanto più necessaria in quanto tanti oggi cercano di minimizzare ciò che è stato il nazismo, di banalizzarlo. E che costa ogni volta all’autrice sofferenze cui però lei non si sottrae, come dimostra il fatto che è pronta ad offrire la propria testimonianza nelle scuole o dovunque essa sia richiesta. Certo, è un compito che la spinge costantemente a guardarsi indietro, ma è un guardarsi indietro per poter vivere meglio l’oggi, da persone più consapevoli dell’abisso di bene e di male che c’è nell’uomo, in modo che certi errori fatali non abbiano più a ripetersi. Con lo stupendo L’usignolo dei Linke apparso negli ultimi mesi la Schneider ha completato la storia della sua infanzia, iniziata con Il rogo di Berlino (il suo libro di esordio, un vero caso letterario). Infanzia segnata dall’abbandono nel 1941 da parte della madre, arruolatasi nelle SS per diventare una delle più spietate aguzzine del campo di sterminio di Aischwitz- Birkenau. La piccola Helga conosce la fame, le privazioni, il puzzo dei cadaveri e il fumo degli incendi di una Berlino ormai distrutta; le angherie della seconda moglie di suo padre. C’è perfino un incontro con Hitler, nel bunker del quale viene condotta assieme al fratellino Peter e ad altri bambini, nell’ambito di un’operazione propagandistica. Ma nella sua lucida e impietosa rielaborazione del passato c’è posto anche per la speranza di chi non si rassegna al male, per i gesti di umanità, altruismo, eroismo; e perché no? anche per l’ironia e la poesia. Tutto ha registrato quello sguardo di bambina che voleva vedere per ricordare. Ricordare soprattutto a chi – oggi – non ha avuto esperienza diretta della guerra e dei suoi effetti devastanti, non solo sul piano fisico e materiale, ma anche psicologico e morale. La vita della Schneider è trascorsa nel dolore di una assenza, quella della madre, che ritrova solo nel 1971, trent’anni dopo l’abbandono da parte sua. Durante questo incontro, la donna ancora fiera del suo passato mostra alla figlia annichilita e nauseata la sua divisa di SS, offrendole in aggiunta manciate dell’oro rubato agli ebrei. La rivedrà ad anni di distanza, nel 1998, nella casa di riposo viennese dove è ospitata, ormai prossima a morire, ma sempre irriducibile e tutt’altro che disposta a pentirsi. Helga ha tentato in tutti i modi di spezzare il legame con una madre così snaturata, rinunciando perfino a parlare il tedesco, e il suo volerla rivedere è in fondo un modo per riuscire definitivamente ad odiarla e a strapparsi così dalle sue radici. Eppure, se non può amare questa donna che ha abdicato al suo ruolo di dispensatrice di vita per sopprimerla in tanti, non può neppure odiarla, così forte è il legame naturale. Riesce però a perdonarla. Lasciami andare, madre è il drammatico resoconto di questo secondo e definitivo faccia a faccia. Il suo adattamento teatrale, realizzato dall’autrice insieme alla regista Lina Wertmüller, è andato in scena di recente al Teatro Eliseo di Roma con enorme successo: protagonisti d’eccezionale bravura, Milena Vukotic e Roberto Herlitzka. Anche nei suoi romanzi per ragazzi la Schneider attinge alle esperienze traumatiche della guerra. Stelle di cannella descrive le conseguenze assurde, quasi grottesche, causate nella vita quotidiana delle famiglie ebree dall’avvento del nazismo nella Germania del 1932. Uno stravolgimento che porta a separare due amici per la pelle, Fritz e David, e persino i loro gatti. Il recentissimo L’albero di Goethe, invece, ci porta nel campo di concentramento di Buchenwald, sorto nelle vicinanze di Weimar, cittadina che evoca tutto un passato di glorie artistiche e letterarie, al posto di un una foresta. Unico superstite di essa è – nel bel mezzo del lager – un faggio alla cui ombra il grande Goethe amava riposarsi e scrivere. Questa immagine di vita e di bellezza in un luogo che parla di morte è simbolo altresì di una speranza dura a morire. Ed è quella appunto a sostenere Willi ed altri ragazzi come lui internati nel lager fino alla fine della guerra e alla liberazione da parte degli alleati. Una vicenda di amicizia e solidarietà che affronta con grande delicatezza, fra l’altro, il poco frequentato argomento degli abusi sessuali commessi sui giovanissimi prigionieri dai loro aguzzini. Leggere un libro della Schneider potrà anche risultare sgradevole, a volte, ma sempre lascia migliori, col suo invito alla pietà, alla tolleranza, alla pace. Basterebbe questo per ringraziarla del coraggio con cui ha saputo scavare nella sua sofferenza e trovare le parole per dircelo.

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