Il dormiveglia del condannato

Tutte le volte che vado ad Agrigento, la città dove riposano i miei morti, mi stupisco di vedere sui volti dei conoscenti le devastazioni compiute dal tempo. Devastazioni di vario grado che la giacca alla moda o la tintura dei capelli non migliora. Vedo anche bellezze non conosciute che si affacciano sulla scena e rivedo in loro il mio carico di entusiasmo, le mie stesse ingenue legittime speranze. Per Natale un vecchio amico mi ha raccolto in due cd le musiche e le canzoni preferite, quelle ardite dei cantautori coraggiosi degli anni Sessanta e Settanta che lui cantava bene accompagnandosi con la chitarra. Quelle che mi piacciono perché la parola è incoraggiata dal suono e diventa poesia capace di colorare di sogno il grigio dei giorni. Sogni lontani, mai raggiunti in tutta la loro estensione. Scadenza oltrepassata oppure da attendere ancora? Antonio mi diceva che la musica ha il potere di trattenere il tempo! , lo riferivo a Maurizio anche per ringraziarlo del dono. E lui più che trattenere il tempo, la musica ha il potere di far riemergere il vissuto. Dove riposa il vissuto? Una canzone mi riportò alla passeggiata domenicale dei miei sedici anni, vasca di andata e ritorno, ondate di sguardi e vestiti nuovi o stirati bene. Una scena che si ripeteva sul palco del Viale della Vittoria. Ora il viale con una comoda strada scende fino al cimitero dove molti di quegli sguardi sono fissati per sempre su lapidi più o meno appariscenti e il mio andare e venire ora è popolato da un silenzio acuto, insostenibile. Una lacrima secca prima di cadere. Le domande, per scaramanzia, non arrivano a traboccare dal cuore carico. Temono di non trovare risposta. Passeggio col mantello del silenzio che senza pesare mi sta addosso bene. Il mantello portato da mio padre, da mio nonno… Ho raggiunto la statura del loro tempo che una volta mi sembrava irraggiungibile. Mi distrae un profumo troppo forte per quel luogo, un maquillage dissonante col grigio del marmi, più finto ancora dei fiori di plastica sempre in scena. Non mi distrae un grido disperato mescolato a fiori freschi, non è dissonante la povertà di un vestito fiori moda o sbiadito dall’uso. Questo è un luogo sicuro, pregno di verità e giustizia. Incontro un amico. Non mi riconosce. Da come guarda vedo che il suo orizzonte si è spostato oltre il reale. Parlo con la moglie e lui mi scruta come un bambino osserva un nuovo giocattolo. Poi in quegli occhi mi rivedo e mi ritrovo. Non dico nulla, se parlassi dovrei piangere. Lui, cercando nei miei occhi purificati, mi rivela il suo grande segreto: Siamo dei condannati a morte, siamo stati sempre condannati a morte. Non lo sapevamo, la forza dei sogni ci offuscava la vista e non sapevamo leggere il foglio di condanna. La vita è un dormiveglia sterile. È ora di svegliarsi!. Dissi qualcosa come domanda. Lui molto serio, guardando oltre la spalla disegnata dal mio mantello, aggiunse: Se non siamo capaci di svegliarci, cerchiamo di dormire. Distolto lo sguardo dalle mie mani che volevano afferrare le sue, aveva già dimenticato che ero davanti a lui. La moglie prese subito la direzione del passo del marito. Non avevano tempo, non erano interessati a sapere nulla della mia vita. Avrei avuto da raccontare.Ma cosa raccontare a chi si è sciolto da ogni legame? Li vidi allontanarsi sulla striscia del viale incorniciata dal verde scuro dei cipressi che portarono lo sguardo in alto, su un cielo che insolitamente prometteva pioggia.

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