Il dopo Katrina

Katrina. Se ne sentiranno gli effetti per anni a venire. Inimmaginabili all’inizio le reali proporzioni dell’uragano, venute poi alla ribalta col passare dei giorni. Qualcuno ha addirittura detto che ha cambiato l’America, almeno dal punto di vista culturale: quasi lo squarciarsi di una faglia tettonica che ha mostrato – causando shock – un volto dell’America che molti americani della classe media e alta non credevano esistesse, una povertà che riflette 25 anni di priorità sovvertite e di poca considerazione di problemi ambientali, come ha scritto il Time: Dagli anni Ottanta si è celebrata la nostra individualità, ma ora dovremo tutti prestare maggiore attenzione al bene comune come diceva John Kennedy nel suo discorso inaugurale nel ’61: Qui in terra il lavoro di Dio dobbiamo farlo nostro. Più di 60 mila poveri tra cui 38 per cento di disoccupati erano rimasti indietro per non lasciare la casa o il poco che avevano, o per mancanza di mezzi. Erano, sì, per la maggioranza afroamericani, ma assieme a loro anche poveri bianchi e poveri latinoamericani. Più che di razzismo – ha detto Wade Henderson, direttore esecutivo della Leadership Conference on Civil Rights -, si deve parlare di povertà, il vero denominatore comune dell’impatto dell’uragano su chi è stato lasciato indietro. L’eredità della discriminazione razziale ha inevitabilmente contribuito all’esistenza della popolazione povera finora invisibile ripresa dai telecronisti a New Orleans nei giorni della tragedia. Ma ogni crisi è anche una chance, scrive il New York Times, una chance favolosa per poter fare qualcosa di serio circa la povertà urbana. Katrina è stato un disastro naturale che potrebbe evitare un disastro sociale. Molti infatti hanno deciso di iniziare una vita nuova. Già il 10 settembre la città di Houston ha annunciato che entro una settimana tutti gli shelters (rifugi per sfollati) chiuderanno i battenti e tutti gli sfollati saranno trasferiti in appartamenti dove l’aiuto della comunità e l’accesso a posti di lavoro creati appositamente da aziende e negozi, li aiuteranno a tornare ad una vita normale. Malgrado i gravi disagi dei primi giorni, la sovrabbondanza di aiuti e assistenza da parte di individui e gruppi, aziende e chiese di ogni denominazione, continua a raggiungere gli sfollati. Il papa ha inviato messaggi di consolazione ed aiuti concreti tramite Cor Unum, l’associazione vaticana che coordina aiuti umanitari. Il 16 settembre è stato proclamato giorno di lutto e preghiera nazionale per le vittime dell’uragano. E più di cento paesi sono accorsi in aiuto degli stati del golfo: tra loro l’Afghanistan con 100 mila dollari, il Canada con navi ed aerei, il Kuwait con 400 milioni di dollari e vari paesi europei tra cui l’Italia con materiali di ogni genere. A tutti va il ringraziamento della nostra intera nazione, ha detto Bush. Ciò che più colpisce in questi giorni sono le storie personali, i racconti di chi sta ancora vivendo sulla propria pelle questa tragedia. Padre Tony Rauschuber è un gesuita che con altri quattro aveva deciso di restare nel loro liceo a New Orleans. La costruzione di quattro piani era solida e con cibo ed acqua sufficienti non ci sarebbe stato alcun problema. Poi l’uragano, poi la rottura delle dighe, e l’acqua salita fino al secondo piano. Cinquanta persone del quartiere, tutte povere, di tutte le età, hanno chiesto aiuto e sono rimaste con i cinque gesuiti per tre giorni e due notti. Con la riserva d’acqua agli sgoccioli, si sono messi con una canoa alla ricerca di barchette di salvataggio che finalmente hanno portato le cinquanta persone, e poi i cinque, ai pullman per uscire dalla città. Una peripezia vissuta nell’angoscia di aver perso tutto, ma di essere vivi. È veramente importante non dimenticarsi dei poveri , concludeva padre Tony. Siamo evacuati in un parco statale, cinque ore a nord di New Orleans – ci ha detto una coppia, amici del Focolare dagli anni Sessanta -. È stato difficile lasciare tutto. Forse non avremmo più ritrovato la casa. Ma tutto passa, e solo Dio resta. Ed abbiamo trovato il suo amore: un vicino ci ha portato del cibo. Cristiani di varie chiese portano pasti e vestiti ai circa 120 sfollati che risiedono con noi ora nel parco. Ciascuno mette i suoi talenti a disposizione. La vita si semplifica ed il rapporto tra noi si è approfondito . Il marito, medico, offre i suoi servizi. Ciò che colpisce è un senso di fratellanza fra tutti, ci si aiuta, si crea una comunità non basata sui soldi. Perfino le banche hanno sospeso scadenze e cambiali. In Texas le iniziative di aiuto, sia immediato che a lungo termine, sono infinite. Jonathan Michelon si è trovato ad aiutare all’Ufficio Dispersi presso la base militare diventata rifugio per sfollati a San Antonio, Texas, 900 chilometri da New Orleans. Ho cercato di trattare chi si presentava come se fosse unico al mondo: un uomo che cercava il padre novantenne ricoverato in ospedale durante l’uragano, o due sorelline alla ricerca dalla mamma. Altri avevano bisogno di un numero di telefono, di un’informazione, ma soprattutto di ascolto. Ho visto crollare le barriere che ci creiamo nella società, le etichette che ci mettiamo addosso. Eravamo tutti esseri umani, fratelli e sorelle, e ciascuno ha ritrovato se stesso. Non si parla molto dell’Alabama, ma anche lì la costa è stata duramente colpita. Ci sono voluti tre giorni a Gabriella Pickett, una nostra amica professoressa universitaria nella città di Mobile, per trovare un telefono d’emergenza. Neppure i telefonini funzionavano più. Lei e la sua famiglia stanno bene, ma non altrettanto alcuni suoi amici musulmani afroamericani. Erano riusciti a raggiungerla per dirle che erano salvi ma la casa era stata rasa al suolo e come loro 20 mila persone hanno perso tutto a Bayou La Batre, un povero villaggio di pescatori di gamberi con 23 mila abitanti. Lui, Luqman Rashid, lavorava al cantiere navale ed era vivo per miracolo. Gabriella è andata dove era sfollato con la famiglia per portargli un aiuto concreto da parte di Chiara Lubich. Era commosso: Allora non è vero che siamo gli abbandonati da tutti (infatti, a parte un servizio televisivo, nessuno parla dei danni in Alabama). Alla mia moschea raccoglievo aiuti per lo tsunami in Asia e non sono abituato a ricevere aiuto: ma questo è un dono di Dio, diceva con profonda gratitudine. Scuole e università in tutti gli Usa stanno immatricolando studenti trasferiti dalla zona del golfo. Gabriella ha ora in classe giovani di New Orleans. Il bisogno è grande, non hanno niente ma tutti cercano di aiutare trovando libri gratis, aiutando con la retta da pagare. La gente apre cuore e braccia per far fronte almeno temporaneamente all’inefficienza del governo. Nell’Università di Houston in Texas, dove lavora Dennis Clifford, hanno accettato 700 studenti senza carte e senza soldi da New Orleans. La loro vita è cambiata drasticamente, quasi l’effetto di una guerra. Cerco di vedere e amare Dio in ciascun giovane che viene ad iscriversi. Ci sono altri shock in vista per l’America: il numero dei morti (quando si saprà), l’impatto sull’energia e sull’economia in generale, e le difficoltà e costi della ricostruzione (si parla di mesi o anni). Nuove sfide da affrontare, ma accanto al peggio si sta vedendo il meglio della natura umana, con grande speranza e la caratteristica capacità americana di ricominciare. TRA 25 MILA SFOLLATI IN TEXAS Tra un mare di brandine, bambini che corrono, volontari che distribuiscono coperte e lenzuola, chi è seduto immobile si fa notare. Confusi e gentili sono lì, seduti. Ti guardano, e nel loro sguardo vedi la tragedia che non sanno descrivere a parole. Kelly, una base dell’aviazione militare chiusa nel ’91, ha riaperto i battenti e i suoi 30 chilometri quadrati agli sfollati. In 10 giorni ne sono passati circa 25 mila, registrati, curati, ospitati e trasferiti poi in scuole o grandi centri commerciali o addirittura in altre città quando il posto qui è stato saturato. Un lungo corridoio soprannominato Main Street separa quattro enormi stanzoni. Al centro volontari della Croce Rossa istruiscono e distribuiscono lavori alle centinaia di texani che avendo sentito in tv l’annuncio dell’arrivo degli sfollati vengono spontaneamente da ogni dove per dare una mano. Se qualcuno vi chiede qualcosa, smettete subito ciò che fate ed accompagnatelo dove ha bisogno, è la prima cosa che un volontario si sente dire. A queste persone hanno detto di camminare per miglia nell’acqua fino all’autostrada dove ci sarebbero stati pullman ad attenderli. Ma non c’erano! Hanno continuato a sentire indicazioni da un sacco di gente, e non ne possono più. Hanno bisogno di essere accompagnati, di sentirsi capiti. Non c’è bisogno di dirlo, ma il desiderio di ciascuno è di rispondere non solo alle necessità materiali, ma anche e soprattutto spirituali, ridando a tutti la dignità di cui si sono sentiti privati nei primi giorni dopo l’uragano. La pazienza e capacità di sopportazione degli evacuati in mezzo a stress inimmaginabili è indescrivibile.Ne sono testimone oculare. Si consolano e proteggono l’un l’altro, si prendono cura dei bambini o degli anziani gli uni degli altri. Si potrebbero raccontare fatti all’infinito. Una mattina, dopo una messa, il sacerdote ha invitato chi voleva a parlare. Avete presente la Via Crucis della quaresima? – ha detto un signore -. Noi l’abbiamo appena fatta.Aveva vissuto cinque giorni e cinque notti al Superdome. E un altro gli ha risposto: Non mi immaginavo quanto male potessero andare le cose. Ma siamo riusciti ad andare avanti perché ci siamo aiutati l’un l’altro. Mary Adams

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