Il dilemma della chiamata alle armi

Intorno alla memoria della festa della Liberazione si pone periodicamente in evidenza il dibattito della legittimazione per i cristiani sull’uso delle armi in guerra. Una questione sempre più attuale davanti ai conflitti in corso. Il parere di Guido Panvini nell’intervista all’autore del libro “Cattolici e violenza politica”
Manifesti celebrativi prima guerra momdiale 1914-1918 ANSA/ UFFICIO STAMPA/ MART

Risale al 2014 la pubblicazione del testo “Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano” con cui lo storico Guido Panvini ha analizzato, in profondità, le radici culturali che hanno giustificato, nel secondo dopoguerra, l’uso della violenza da parte di militanti di destra e di sinistra provenienti da ambienti cattolici.

La formula “uccidere senza odio” risale alla giustificazione dell’obbedienza dovuta all’autorità civili nel primo come nel secondo conflitto mondiale ed è stata adottata anche, pur nel tracollo delle istituzioni, nella lacerante scelta della lotta di liberazione dal nazifascismo. Una costante interrotta esplicitamente dall’insegnamento di don Primo Mazzolari che, nel 1941, rispondendo ad un giovane aviatore, riconosceva il dovere della rivolta verso gli ordini ingiusti. Mazzolari arrivò nel 1955 al rifiuto assoluto della violenza con il testo “Tu non uccidere” che, pur fatto ritirare dal sant’Uffizio, ha influenzato, nel 1963, la svolta epocale dell’enciclica “Pacem in Terris” di papa Giovanni XXIII.

Il dilemma sulla decisione estrema di “uccidere” è sempre più attuale nei Paesi in guerra e in quelli che si preparano alla possibile escalation aumentando gli effettivi dei riservisti e ripristinando la coscrizione obbligatoria. Non è più, quindi, una questione teorica o di interesse storiografico, tanto che il Movimento Nonviolento propone, a prescindere dall’età, di inviare una dichiarazione preventiva di obiezione di coscienza all’uso delle armi.

Abbiamo perciò intervistato il professor Guido Panvini, ricercatore presso il Dipartimento di scienze sociali ed economiche della Sapienza di Roma, per avere il suo parere aggiornato davanti ai dilemmi di questi ultimi tempi.

Dal suo testo sembra emergere la radice della legittimazione morale dell’uso della violenza politica nell’ambito tradizionalista di destra per poi essere adottato con finalità opposte dai giovani di sinistra degli anni 70.  É cambiato qualcosa in questi anni, a suo parere, nel definire una volta per tutte il ripudio della guerra? Oppure si tratta ancora di una questione controversa come dimostra il caso dell’invasione russa dell’Ucraina?
Direi che non c’è una filiazione diretta tra la legittimazione della violenza nella cultura cattolica tradizionalista e in quella messa in campo da alcune correnti del cattolicesimo progressista più radicale negli anni Sessanta e Settanta. Piuttosto c’è una circolazione di temi, culture e interpretazioni teologiche che ritornano, declinate in modo diverso, in tanti attori politici e sociali del cattolicesimo italiano. Il caso più significativo è la similitudine della giustificazione teologica della violenza nell’antifascismo e nell’anticomunismo cattolici, spesso mediata dall’antitotalitarismo che rappresenta il principale veicolo di trasmissione per la giustificazione della resistenza, anche armata, contro la tirannia. Qui arriviamo al punto: il ricorrere dei processi argomentativi sono la diretta conseguenza delle contraddizioni che la secolare dottrina della Chiesa mostra nei confronti della violenza, in rarissimi casi, perfino oggi, ritenuta lecita di fronte alla minaccia dell’aggressione esterna e come ultima ratio contro una tirannia spietata e totalitaria. C’è stata sicuramente un’evoluzione del magistero sul tema della guerra e della violenza, condannate sempre senza ambiguità negli ultimi pontificati; tuttavia, il nodo non è stato mai del tutto sciolto, direi per tutta la cristianità, come ben dimostra la guerra in Ucraina.

Quanto ha inciso l’obbedienza dovuta con il primo conflitto mondiale che ha segnato la legittimazione dei cattolici nello stato unitario? E come si spiega l’obbedienza dovuta pure al regime fascista nella seconda guerra mondiale?
La questione dell’obbedienza ha sicuramente pesato molto più delle ambivalenze verso il tema della giustificazione teologica della violenza contro la tirannia. La prima guerra mondiale e il sostegno della Chiesa al fascismo sono, da questo punto di vista, un caso paradigmatico. Molto più problematico il rapporto della Chiesa con il nazismo: i cattolici, a differenza, dei protestanti avendo avuto un’autorità alternativa a quella dello Stato totalitario hanno potuto contare su un punto di riferimento diverso che ha sollecitato le coscienze inquiete di molti fedeli. Certamente le ricerche storiche più recenti hanno mostrato, a mio parere personale, quante ambiguità e reticenze la Chiesa di Roma ha mostrato nei confronti del genocidio degli ebrei, ma è indiscutibile il potenziale di conflitto che divideva i cattolici dai seguaci di Hitler. Questo a dimostrazione di quanto la questione dell’obbedienza abbia pesato in altri contesti per legittimare guerre e massacri di massa. Quanto avrebbe pesato l’invito della Chiesa a disobbedire all’autorità costituita nel delegittimare guerra e genocidi? È impossibile non porsi questa domanda.

Che impronta ha lasciato la guerra di Liberazione che paradossalmente ha generato il dettato costituzionale dell’articolo 11?
La lotta di Liberazione ha lasciato un’eredità contraddittoria, direi non solo in Italia, ma in tutta l’Europa liberata dal nazi-fascismo. È possibile pensare un pacifismo assoluto? La nonviolenza e la scelta della pace sono ancora pensabili dopo la tragedia imposta al mondo intero dai fascismi? La storia della seconda metà del Novecento sembrerebbe indicare un percorso positivo, facendo emergere un nesso molto stringente tra pace e democrazia, ma quelle domande di fondo sono rimaste insolute: gli spezzoni di cattolicesimo politico e sociale che legittimarono negli anni Sessanta e Settanta la scelta della violenza spesso provenivano da un pacifismo assoluto, da cui si distaccarono attraverso, però, un percorso coerente di argomentazioni e scelte politiche. Direi che tra la scelta della violenza e quella della nonviolenza esistono diverse interconnessioni che spesso non vengono colte al primo sguardo. È il contesto a fare la differenza e dunque l’eredità della Resistenza resterà, giustamente, un’eredità irrisolta. Quello che vale per noi oggi in Italia come riposta, vale anche in Ucraina?

Cosa impedisce oggi un invito generale all’obiezione di coscienza rivolto ai cristiani a cominciare da Russia e Ucraina?
Qui entriamo in un ambito spinoso, perché stiamo parlando di diverse fedi cristiane che con il tema della violenza hanno sviluppato storicamente un rapporto peculiare, senza contare i processi di secolarizzazione che hanno investito sia la Russia che l’Ucraina, nonostante il rapporto con la religione in entrambi i Paesi sia molto diverso rispetto all’epoca sovietica. Nel caso dell’Ucraina, inoltre, sembra prevalere una legittimazione teologica della violenza che si richiama tradizionalmente al diritto di resistenza contro l’aggressione esterna. Certamente questo è un argomento molto manipolabile. In Russia, infatti, si fa altrettanto, poiché diversi esponenti della chiesa ortodossa russa hanno presentato la guerra di Putin come una guerra di difesa contro l’aggressione occidentale.

 Sembra di poter dire: nulla di nuovo sotto il sole….
Si tratta, infatti, dello stesso dispositivo retorico utilizzato dalle diverse chiese cristiane per legittimare la partecipazione delle proprie nazioni al grande massacro della prima guerra mondiale. Bisogna, quindi, porre attenzione ai contesti storici e sociali piuttosto che alle procedure argomentative e teologiche in sé. Sarebbe difficile, infatti, sostenere il diritto all’obiezione di coscienza in un Paese, come l’Ucraina, oggettivamente vittima di un’aggressione, dove la giustificazione della guerra, in ambito cristiano, è passata attraverso la riflessione teologica che ne legittimava l’uso nella duplice funzione di resistenza contro la tirannia e contro l’invasione di un nemico esterno. Tant’è che l’obiezione di coscienza, leggiamo in molti reportage provenienti dall’Ucraina, si associa spesso alla scelta di resistenza nonviolenta, come il lavoro nelle retrovie, a servizio della popolazione colpita dalla guerra e dalla miseria e in tante altre forme. Faccio notare che i dispositivi che giustificano l’obiezione di coscienza sono spesso molto simili a quelli della giustificazione cristiana della resistenza, anche armata. Non bisogna scordare che l’intera riflessione teologica, passata attraverso le tragedie del ‘900 e arrivata fino a oggi, ha fatto molto per delegittimare guerra e violenza, ricordandoci però che, sempre a mio parere, sono problemi insolubili per l’uomo.

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre rivistei corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it

 

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

Il voto cattolico interessa

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons