Rav Abraham Skorka è da anni il rettore del Seminario Rabbinico Latino-americano di Buenos Aires. Già conosciuto a livello mondiale, sia nell’ambito accademico che in quello del dialogo ebraico-cristiano, la sua notorietà è cresciuta con l’elezione di papa Francesco. Skorka, infatti, da più di vent’anni intrattiene rapporti di amicizia profondi con il gesuita argentino, oggi vescovo di Roma.
Ma come sono i suoi rapporti col pontefice? Questa è «una domanda che mi hanno fatto giornalisti di tutto il mondo da quella sera del 14 marzo» mi dice ridendo prima di iniziare a raccontarmi del loro primo incontro. «Ero stato invitato, come uno dei rappresentanti della comunità ebraica, al Te Deum, il ringraziamento che si celebra nella cattedrale di Buenos Aires in occasione delle nostre due feste nazionali: il 25 maggio ed 9 luglio. Fin dai primi anni novanta, ho ricevuto con regolarità l’invito a questo momento istituzionale e religioso. È l’occasione per incontrare il presidente argentino, ministri, persone delle istituzioni ed anche i vescovi. Quando ho visto Bergoglio per la prima volta, era appena diventato arcivescovo coadiutore del card. Quarracino. Poi, nel 1999, se ben ricordo, è avvenuto l’incontro decisivo. Bergoglio era già arcivescovo e al termine del Te Deum tutti dovevamo passare a salutare sia lui che il nunzio. Ci fu raccomandato di essere brevi, solo una stretta di mano. Al mio turno, oltre alla stretta di mano, ho fatto un commento alla sua omelia. Lui mi ha guardato e, poi, ha fatto una battuta sul nostro tifo calcistico. Ho preso quella frase come una porta che si apriva verso un rapporto che non sapevo come sarebbe finito, ma che potevo continuare».
E poi, cosa è successo?
«Abbiamo cominciato ad incontrarci personalmente, ma anche ad invitarci ad occasioni ed eventi ufficiali delle nostre comunità. Mi sono chiesto molte volte come mi aveva conosciuto e perché mi invitava. La risposta che ho trovato è che, probabilmente, aveva letto alcuni miei articoli sul dialogo fra ebrei e cristiani, che avevo scritto per la Nacion, uno dei giornali più letti in Argentina. Siamo diventati partners sinceri nel dialogo e amici sulla strada alla sequela di Dio. Col passare del tempo se ho scoperto qualcosa di particolare nella personalità di Francesco è un grande senso di umiltà».
Siete, poi, arrivati a scrivere Il cielo e la terra, un libro che ormai è tradotto in diverse lingue, fra cui italiano ed inglese, e che vi accomuna in una collaborazione che potremmo definire geniale e innovativa. È come vedere un dialogo in atto fra due leaders religiosi, uno ebreo e l’altro cristiano, che affrontano le questioni scottanti dell’uomo del terzo millennio. L’idea come è nata?
«Con il passare del tempo, in occasione dei nostri incontri abbiamo cominciato a chiederci cosa fare. Concordavamo, infatti, sulla necessità di mostrare il dialogo. Attenzione: dico mostrare, non solo fare una esperienza di dialogo. In Argentina, infatti, il dialogo è un punto cruciale irrisolto a tutti i livelli: politico, amministrativo, sociale, religioso. In ogni campo della vita e della società dialogare è una questione difficile nel nostro Paese. Per questo ci siamo presi l’impegno di tentare di mostrare che cosa possa essere il dialogo. Da qui l’idea di un libro a quattro mani (Il cielo e la terra), che ha avuto un successo insperato. La rete televisiva della diocesi di Buenos Aires ha pensato allora di mettere in cantiere un programma che continuasse sulla stesa linea. Abbiamo preparato trenta trasmissioni, introdotte da un noto opinionista argentino, Marcello Figueroa. Il programma toccava via via problemi scottanti del nostro Paese e della nostra società: la famiglia, la povertà, la solidarietà, in breve i problemi dell’uomo».