Il crocifisso ed i suoi difensori

Adel Smith, musulmano italo-egiziano, ha i propri figli iscritti alla scuola di Ofena, paese abruzzese di solide tradizioni cattoliche. Chiede al giudice dell’Aquila che il crocifisso appeso nell’aula scolastica venga rimosso, per rispetto alla propria religione. Il giudice, che gli ha dato ragione, ha motivato la sentenza sostenendo che la religione cattolica non è più “religione di stato”. Insigni giuristi hanno messo in dubbio che la sentenza possa stare in piedi a lungo; si vedrà. In ogni caso, non basta che l’assunto della “religione di stato” sia – giustamente – caduto per modificare, nella cultura e nella sensibilità di un popolo, quel che il crocifisso rappresenta. Ha inciso molto, sulle reazioni della gente, il modo con il quale il problema è stato posto. La presa di posizione dei genitori di Ofena, che si sono opposti alla rimozione, è perfettamente logica: hanno reagito ad una sentenza avvertita come ingiusta, perché dava forza legale ad una richiesta prepotente. La successiva proposta “compromissoria” dell’avvocato di Smith, cioè di ri- mettere a posto il crocifisso, purché insieme ad un simbolo musulmano, ha aggravato la situazione, prendendo il sapore del ricatto. Se la richiesta di aggiungere un simbolo musulmano fosse venuta subito, senza il rifiuto del crocifisso, avrebbe posto un problema notevole da approfondire, ma non avrebbe recato offesa. Molti, fra coloro che hanno criticato la sentenza, hanno fatto riferimento, con competenza, alla cultura e alla storia dell’Italia: è una cosa che ha un suo senso, perché significa rispettare un’identità di popolo il quale, pur se molto meno praticante di un tempo, continua – nella schiacciante maggioranza – a considerare il cattolicesimo parte integrante della propria identità; ma nel popolo l’immagine del crocifisso rimanda ad una realtà viva di fede, di comunità, di amore vissuto. Altra cosa, invece, è difendere il crocifisso solo perché simbolo di una “identità nazionale”; è fuorviante: non è questo il senso profondo della fede; anzi, difenderne i simboli perché “nazionali”, subordina la religione alla dimensione politica. Per non parlare di chi – cattolico improvvisato – si è gettato immediatamente sulla sentenza per ingigantire i pericoli di una conquista islamica, allo scopo di combattere l’integrazione degli immigrati. Che la “islamizzazione dell’Occidente” attraverso gli immigrati sia parte importante di una strategia fondamentalista di conquista e trasformazione dell’Occidente, è noto da tempo; ma essa si può realizzare proprio se non si attua una reale integrazione e gli immigrati rimangono un blocco separato. Ha colpito il fatto che molti non credenti abbiamo avversato la sentenza: lo hanno fatto non in nome della fede, ma per la consapevolezza dell’importanza culturale di ciò che il crocifisso rappresenta. Il messaggio cristiano ha introdotto l’idea del valore dell’uomo, anche del più povero, dello schiavo. Ha dato uguaglianza ai sessi, facendo di Maria, una donna, la Madre di Dio. Ha dato importanza alla vita su questa terra; ha liberato gli uomini dall’oppressione del destino, nel quale credevano gli antichi, facendo capace ciascuno di operare la scelta fra il bene e il male. Soprattutto, e dapprima, col grande esempio degli ordini monastici, seguiti poi da un’infinità di altre forme di vita comunitaria, ha insegnato a vivere insieme in maniera paritaria e ordinata. Ha dato valore al lavoro e impulso all’iniziativa personale; ha introdotto l’idea della solidarietà verso tutti e della fratellanza universale, mettendo a disposizione dell’umanità, ad ogni generazione, schiere di “chiamati” che si sono dedicati agli altri e non a sé stessi. Tutto questo, pur fra errori e debolezze, dei quali la chiesa ha saputo chiedere perdono, ha reso possibile il progresso, la crescita della dignità umana, il riconoscimento dei diritti degli uomini e dei popoli. Molti non credenti lo hanno capito; ha detto il prof. Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Antonio Gramsci: “Credo che questo sia un dato acquisito dalla coscienza europea e nazionale: e cioè che non esiste una comunità senza un fondamento eticoreligioso “. C’è ancora moltissimo da fare, ma se ciò che esiste non fosse stato fatto, sarebbe la barbarie. Se duemila anni fa non ci fosse stato il Crocifisso, probabilmente oggi non avremmo neppure l’edificio pubblico al quale appenderne il simbolo. La sfera politica merita un discorso a parte. C’è infatti anche un importante motivo politico per cui non è impropria la presenza del crocifisso negli edifici pubblici: ricorda che la democrazia non è anonima, ma deve la propria cultura, in gran parte, alle sue radici cristiane. Il crocifisso non è l’immagine di un potente, di un uomo di successo, di un momento felice. Esso rappresenta un uomo sconfitto, tradito, disilluso, morente: è ciò che ognuno di noi nella vita, prima o poi, incontra. Il crocifisso è il simbolo dell’esperienza di Gesù, che è arrivato là dove ogni uomo arriva: ci ha raggiunto fin nell’ultima tappa della nostra umanità. La fede cristiana dice che Gesù, arrivato nel momento più difficile e nel punto più basso della sua esistenza, è Dio; ci di- ce che Dio è proprio lì, dove e quando perdiamo ogni speranza. In Gesù crocifisso Dio si fa uguale a noi: e con questo ci rende uguali fra noi; assume le pesantezze e le catene della condizione umana: ma perfino nel momento di massimo abbattimento Gesù, in un atto di assoluta libertà, lo interroga sullo scopo dell’abbandono, insegnandoci, così, che la libertà dell’uomo va oltre le catene e le pesantezze della propria condizione e di quelle che gli altri possono avergli imposto; chiamando “Dio”, e non “Padre”, mostra di non avvertire più, in un mistero d’amore, la propria unicità, l’essere, cioè, il Figlio di Dio: ma in tal modo si fa fratello nostro e, dunque, ci rende fratelli fra di noi. Gesù crocifisso e abbandonato apre dunque l’umanità all’uguaglianza, alla libertà, alla fraternità: i princìpi della democrazia completa. Chi vuole far sparire il crocifisso pensa forse, in fondo, ad una democrazia diversa, sbilanciata sul lato della libertà, o su quello dell’uguaglianza: certamente, non pensa ad una democrazia fraterna. Ma non potremmo – qualcuno si chiede – tenerci questi princìpi così preziosi, con tanti ringraziamenti per il cristianesimo, e mettere da parte un simbolo qual è il crocifisso col suo diretto riferimento alla fede, dato che, ormai, quel che poteva dare lo ha dato? La risposta è “no, non possiamo”: perché quei tre princìpi hanno potuto prendere spazio nella storia – e non sono rimasti al livello di mera intenzione, non sono rimasti solo dei simboli – proprio perché il cristianesimo ha affermato che quell’uomo-Gesù è risorto, e ciò che Egli ha vissuto sulla croce è efficace. In altri termini, il fondamento che, attraverso le vicende della storia, conduce alle democrazie, è specificamente religioso: non appena tre princìpi vengono separati dalla loro radice cristiana, non riescono a stare insieme: la libertà si scontra con l’uguaglianza, la fraternità diventa settaria o nazionalistica; ognuno dei tre princìpi, separandosi dagli altri, si allontana dal proprio autentico signi-ficato. Chi lo vuole eliminare in nome della “laicità”, intende forse, in realtà, introdurre una diversa interpretazione della stessa democrazia: una democrazia anonima, mera tutela dei diritti individuali, che restringe ciò che è pubblico al minimo e, dunque, neppure è disposta a riconoscere il ruolo storico e pubblico che il cristianesimo ha svolto e svolge. Ma il ruolo culturale del cristianesimo non è separabile dal fatto che esso è religione, e che è quella particolare religione: non lo si può ridurre a mera corrente di pensiero, pur avendo dato origine anche a varie correnti di pensiero. Ma il contenuto ultimo del crocifisso va al di là anche di tutto questo: “È il simbolo eloquente – ha sottolineato il papa nella sua catechesi del 29 ottobre – della civiltà dell’amore”, è “una sorgente di luce, di conforto e di speranza per gli uomini di tutti i tempi”. Non tutti quelli che in questi giorni ne hanno difeso la presenza negli edifici pubblici hanno messo a fuoco questo concetto. È importante, invece, che il crocifisso ci sia, purché venga inteso l’autentico contenuto di questo simbolo, il simbolo più universale di cui l’umanità dispone. Non dobbiamo dimenticare che la vitalità della religione cristiana domanda la capacità dei cristiani di testimoniare Cristo. GESÙ NEL CORANO Nel testo sacro dell’Islam c’è un fondamento per l’intolleranza contro i simboli religiosi cristiani? Per i musulmani il Corano non discende da altri testi, ma è la Parola stessa di Dio discesa su Muhammad senza mediazioni. Per questo dà compimento e supera le Scritture precedenti: la Legge di Mosè e il Vangelo di Gesù; più esattamente, le sostituisce; tali Scritture, infatti, non corrisponderebbero, secondo il Corano, ai veri insegnamenti di Mosé e di Gesù, ma sarebbero state coscientemente falsificate (II, 75). L’insegnamento religioso corrente, quale si può ricavare da taluni testi per le scuole o da certa predicazione nelle moschee, esaspera spesso questo concetto, giudicando molto severamente il cristianesimo. La chiesa, non riconosciuta come la vera comunità dei discepoli di Gesù, è sovente identificata con l’Occidente e i suoi peccati.Tali insegnamenti e predicazioni, uniti alla valutazione negativa che molti immigrati musulmani danno della vita morale in Occidente, fomentano un certo disprezzo nei nostri confronti. E se la condanna morale dell’Occidente si basa su fatti indiscutibili, è anche vero che chi condanna non sa o non vuole vedere il bene che, pure, c’è nell’Occidente. Ma questo atteggiamento di molti musulmani normalmente non tocca i simboli del cristianesimo, e in particolare le figure di Gesù e di Maria, che sono profondamente rispettate: ad esempio, non è infrequente incontrare, nelle chiese cattoliche indiane, numerosi musulmani, che vi si recano per devozione alla Madonna, della quale il Corano afferma il parto virginale. Per il Corano, Gesù nasce senza intervento dell’uomo, creato direttamente da Dio; non viene riconosciuto come il Figlio di Dio, ma viene considerato come un grande profeta, fino a dire che è “parola venuta da Dio” (III, 39), il “Verbo di Dio gettato in Maria” (IV, 171). Il Corano non accetta che Gesù sia stato crocifisso, e sostiene che sia stato sostituito da un altro che gli somigliava, mentre il vero Gesù fu innalzato da Dio presso di sé (IV, 157-158). Ma questa negazione della crocifissione – stante che il mistero di Gesù non è compreso – è affermata per rispetto, e non dovrebbe dare alcun alimento al disprezzo nei confronti del crocifisso. Tanto più che nel Corano si trovano testi che, se rettamente intesi, conferiscono un solido fondamento alla più ampia tolleranza; si legge, ad esempio: “Voi affermate: “Crediamo in Dio; cre- diamo a ciò che ci ha rivelato; crediamo a ciò che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Giacobbe e alle tribù; crediamo a ciò che è stato donato a Mosè e a Gesù e ai profeti del Signore. Nessuna differenza fra noi e loro: tutti siamo sottomessi a Lui”” (II, 136). E ancora: “Vedrai che gli amici più sinceri dei credenti sono quelli che affermano: noi siamo cristiani” (V, 82). Di fronte ai casi che la cronaca ci presenta, due sembrano le prospettive nelle quali impegnarsi oggi: la prima, dare testimonianza di una vita cristiana autentica, che permetta di distinguere fra la religione cristiana – con il bene che essa ha prodotto nella civiltà occidentale -, dagli aspetti negativi e materialistici dell’Occidente. La seconda, favorire nei credenti dell’Islam la scoperta del senso autentico della loro religione, l’avvicinamento alla spiritualità autentica del Corano, al di là delle letture strumentali e ideologiche oggi molto diffuse sotto la spinta delle condizioni politiche. VELO ISLAMICO, LAICITÀ, FONDAMENTALISMO Il dibattito in Francia si è acceso molto prima che in Italia. Ne parliamo con Alain Boudre e Henri- Louis Roche. Sul crocifisso sta discutendo mezza Europa. Mentre in Spagna il partito socialista ha proposto che i crocifissi vengano ritirati dalle scuole attraverso un provvedimento amministrativo, in Francia continua a montare il dibattito che, partendo, anni fa, dal problema delle ragazze islamiche che si presentavano a scuola col velo, ha investito il più ampio tema della “laicità” dello stato. Abbiamo chiesto a due giornalisti di Nouvelle Cité, che da anni seguono questo dibattito, qualche valutazione sulla situazione francese. Alain Boudre spiega che “in Francia siamo nel pieno del dibattito; esso riguarda soprattutto la legge del 1905 che stabiliva e regolava la separazione fra chiesa e stato: l’avvicinarsi del centenario cade in un momento in cui le diverse sensibilità sono molto accese”. Questa legge vieta l’esposizione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche, riferendosi a quei simboli che si fanno vedere in modo tale da caratterizzare l’ambiente; per intenderci, uno studente può benissimo portare al collo una catenina con un crocifisso, ma non si può appendere il crocifisso nell’aula”. “Il mondo politico – continua Henri- Louis Roche – è diviso fra chi vuole una nuova legge e chi ritiene sia sufficiente quella esistente. L’impressione è che si stia rinforzando l’opinione di coloro che vogliono una maggiore sottolineatura della laicità, cioè una più netta esclusione dei simboli religiosi dalla vita pubblica e, di conseguenza, anche da quella scolastica”. Una commissione presieduta dall’on. Stasi è al lavoro da un paio di mesi sull’argomento. Quali sono gli argomenti sul tappeto? Fra le altre cose, secondo Roche, “c’è, da una parte, la questione della libertà di coscienza: ci si chiede come reagirebbe l’Europa di fronte ad una nuova legge francese più restrittiva. Dall’altra c’è il problema politico di contrastare il “Front national”, la destra, che su questi temi raccoglie voti: il calcolo politico non è estraneo al dibattito”. E la chiesa francese che cosa dice? Alain Boudre: “Particolare autorevolezza ha l’arcivescovo di Parigi, mons. Lustiger; secondo lui nella legge esistente c’è già tutto quello che serve per risolvere i nuovi problemi, che sono quelli legati al velo islamico. E avverte: attenzione, questo è anzitutto un problema religioso e spetta ai responsabili della religione musulmana dire ai propri fedeli quello che si deve fare o non fare. Non è un affare dello stato. Ma aggiunge anche che il significato di un velo islamico non è lo stesso in Iran e in Francia. Perché in Francia ci sono correnti islamiche estremiste che sfruttano il velo per affermare la loro identità po-litico-religiosa”. Quando fu posto il problema delle studentesse velate, come venne affrontato? “A un primo livello – risponde Boudre – nelle scuole stesse, dove agisce un Consiglio di disciplina. Ricordo il caso di uno di questi Consigli che spiegò che il velo non si poteva portare in alcune situazioni: durante l’ora di ginnastica, ad esempio, o nel laboratorio di chimica; si tratta di indicazioni basate sulla volontà di garantire la sicurezza personale. In alcuni casi in cui il velo è stato vietato, le famiglie si sono rivolte al tribunale; e qualche volta questo ha risposto di non essere competente, perché riteneva che la questione andasse affrontata a livello nazionale. Morale della favola: non c’è, fino ad oggi, una posizione nazionale unica”. Dunque, dai cugini francesi, questa volta, purtroppo, non vengono lumi. Mal comune, mezzo gaudio, si potrebbe dire; ed è questo proverbio che, forse, guida la conclusione di Henri-Louis Roche: “Se devo dire fino in fondo la mia idea, penso che la via di uscita per la Francia sia da cercare in una legislazione comune europea”.

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