Il coraggio di essere iracheni

Enormi difficoltà e tensioni, missili all’aeroporto e attacchi jihadisti non fermano il cammino dell’Iraq verso la costruzione di una società civile rispettosa e inclusiva delle differenze. Un cammino in salita, ma che che procede.
La terapia intensiva dell'ospedale Ibn al Khatib di Bagdad, in Iraq, distrutta dopo un incendio che ha provocato la morte di 80 persone e il ferimento di 100. Foto Ap

«Chi crede in Dio non ha nemici da combattere»: l’ha detto papa Francesco in Iraq, all’incontro interreligioso della Piana di Ur, il 6 marzo scorso. Una prospettiva apparentemente improponibile nell’Iraq degli ultimi quattro decenni (segnati da 4 guerre), dove le milizie settarie e jihadiste hanno finito di distruggere, dopo l’invasione a stelle e strisce del 2003, un Paese che era tra i primi esportatori al mondo di petrolio e gas.

Dopo la visita del Papa, nel “Paese fra i due fiumi” sta prendendo però piede una coraggiosa e tenace battaglia quotidiana per cercare di uscire dalle lotte mortali che dilaniano il Paese, condizionando pesantemente ogni sforzo per cercare prospettive di pace e di convivenza. Ci vuole coraggio per accogliere l’idea che essere iraqeni comporta l’integrazione attiva della propria sacrosanta diversità (etnica, confessionale, politica e perfino di genere) con il valore prioritario della comune cittadinanza. Ne erano un segno i cartelli che hanno accolto il Papa a Baghdad e a Najaf, dove ha incontrato il grande ayatollah al Sistani: sotto i volti dei due leader religiosi c’era scritta una frase che il leader sciita dell’Iraq ha detto in risposta alla Fratelli tutti di papa Francesco: “Voi siete parte di noi e noi siamo parte di voi”.

(AP Photo/Hadi Mizban)

Nell’Iraq di oggi conflitti e problemi non mancano, e condizionano pesantemente il quotidiano. Ma non sembrano capaci di fermare il cammino di integrazione, nonostante pesanti interferenze esterne.

Una delle maggiori preoccupazioni del governo sono, per esempio, i giganteschi costi dell’apparato pubblico che, comprese le pensioni, assorbe quasi il 40% del bilancio statale. Questo, insieme agli inevitabili sostegni indiretti alla popolazione, significano qualcosa come 7 miliardi di dollari al mese, mentre con il Covid le entrate dell’export iraqeno dei mesi scorsi (per riduzione della domanda di petrolio e crollo del prezzo al barile) non sono riuscite a superare la metà di quella cifra. A questo va naturalmente aggiunto l’enorme costo di una corruzione radicata a tutti i livelli.

Un passo avanti a livello economico, anche se potrebbe rivelarsi rischioso a livello politico, è un accordo attentamente studiato con la Cina, che si è impegnata a ricostruire molte infrastrutture del Paese in cambio di 100 mila barili di petrolio al giorno per 20 anni. Secondo la Banca Mondiale per ricostruire le infrastrutture distrutte nella guerra allo Stato Islamico (2014-2017) sono necessari 88 miliardi di dollari.

Isis (o Daesh), però, è tutt’altro che debellato. Ci sono sacche di territorio, a cavallo del confine con la Siria e nel centro del Paese, che sono sempre più controllate da cellule jihadiste (con una media di oltre 100 attacchi al mese).

La pandemia, poi, non da tregua: nel Paese i contagi hanno superato il milione, con 15 mila morti. Nell’ultima settimana di aprile la curva è di nuovo in salita con 7.500 nuovi contagi al giorno. E sul versante vaccini, sono state finora effettuate solo 300 mila somministrazioni. Di recente c’è stato inoltre un grave incidente in un ospedale Covid di Baghdad: l’esplosione di una bombola di ossigeno e il conseguente incendio ha provocato 82 morti e oltre 100 feriti. La causa è probabilmente una negligenza, con responsabilità da chiarire, che lascia intravedere i problemi che ci sono nella gestione di strutture sanitarie spesso precarie.

Per altri versi, ci sono interessanti segni di crescita nel dialogo politico: a marzo, dopo la visita di papa Francesco, il Parlamento ha bloccato un tentativo di inserire un emendamento sul funzionamento della Corte federale (equivalente alla Corte costituzionale), che prevedeva l’inclusione di 4 esperti di giurisprudenza, ma solo islamica. Dopo un iter dibattuto, l’emendamento è stato approvato con l’inclusione di consulenti appartenenti a tutte le componenti della società iraqena, comprese quelle minoritarie (cristiani, yazidi, mandei-sabei e shabak).

Lo svolgimento di elezioni anticipate legislative per il rinnovo del Parlamento, una delle richieste alla base delle proteste che hanno scosso il Paese fin dal 2019, è stato alla fine fissato per il 10 ottobre prossimo. Il voto sceglierà i 328 membri della Camera dei rappresentanti, che saranno poi chiamati a indicare il presidente della Repubblica e il nuovo governo del Paese.

Un contributo molto interessante al dibattito istituzionale lo hanno dato in questo periodo il patriarca caldeo mons. Sako e l’ayatollah al Sistani. In vista delle elezioni, il patriarca ha sostenuto con forza che la salvezza dell’Iraq è uno stato “laico e civile”. Il patriarca fa pertanto proprie le indicazioni del leader sciita, che sottolineava come al tempo in cui il Profeta dell’Islam si era trasferito a Medina si era realizzata una società civile rispettosa dell’indipendenza della religione e non in contrasto con essa.

«La base dello Stato civile – ha affermato mons. Sako – è garantire la parità di diritti e doveri di tutti i cittadini e fornire loro una vita dignitosa. Non è vero che il sistema laico è opposto alla religione; al contrario, il sistema civile non priva le persone del diritto di praticare la propria fede secondo la personale convinzione e, al tempo stesso, non le obbliga a professare una religione».

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