Il conflitto che non c’è

L’atterraggio a Nalcik è annunciato da un magnifico panorama sulle cime del Caucaso, col superbo Monte Elbrus dalla doppia vetta, 5.642 metri. Sotto la fusoliera dello Jak-42, un’antidiluviana macchina volante, si scorge una campagna piatta e fertile. Poi il taxi ci fa attraversare tutta la città, che si riduce a un lunghissimo vialone sul quale si affacciano il Parlamento, la Presidenza, il teatro: proliferano negozi di telefonini (per gli uomini), di cosmetici (per le donne) e i taxi (per entrambi). Anche qui c’è bisogno di simboli che facciano credere che si sta bene. Dietro la fila di palazzi del lungo viale si stende la vera città fatta di povere casupole. Dalla stazione parte un solo treno al giorno (per Mosca). Idem per l’aeroporto. Qua e là, però, appare la vera natura della popolazione, natura contadina, come testimoniano le botti metalliche da cui si versa la kvas, bevanda tratta dalla fermentazione del pane nero. Siamo i soli estranei nella città, i soli curiosi delle cose della Cabardino- Balcaria: che cosa mai si può venire a fare in una città come Nalcik che non ha una pietra antica, che ha il solo vanto di qualche pretenzioso edificio fatto costruire da Lenin e Stalin che ne vollero fare un baluardo comunista in una terra difficile, mezzo musulmana e mezzo cristiana? Eppure qualcosa ci dice che non mancheremo di scoprire la bellezza di questa gente. A cominciare da due colleghe… La giornalista integrata… È una cronista felice: lo mostra con il suo sorriso quasi infantile, anche se i quaranta li ha passati. Siamo alla Casa della stampa, che ospita una dozzina di giornali e riviste in lingua cabarda, balcara e russa. Natalia Belikh lavora per la Kabardino-Balkarskaja Pravda, cioè la voce del potere. Sono russa – ci spiega -, ma con radici polacche, ucraine, cosacche e locali. Ero pediatra ma ho cambiato lavoro perché guadagnavo solo 1200 rubli, mentre al giornale me ne offrivano 3000. E rischiavo grosso, perché mi occupavo di malattie infettive, in ospedali senza norme igieniche. Avevo cominciato a scrivere, per sentire che il mio lavoro aveva una sua utilità. Accogliendoci, Natalia aveva esclamato: Benvenuti in questo bellissimo Paese. Le chiediamo ragione di tale affermazione. Quando mi sveglio – risponde – apro le imposte e guardo le nostre stupende montagne. Mi dico che sono fortunata. Poi mi avvio al lavoro e mi trovo a salutare un sacco di gente, tanti amici. Queste sono le nostre bellezze. Passiamo al presente, alla convivenza etnica. Ci aspettiamo un cambiamento di tono, ma non è così: ottimismo. Vivevamo fuori città, in un villaggio chiamato Fiume bianco, gente di etnie diverse. Ho imparato a far cucito dalle donne balcare. Ora qualcosa è indubbiamente cambiato, ma i matrimoni misti non si sono fermati, nonostante il potere econodi mico sia nelle mani dei cabardi, il che crea non poche tensioni. Arriviamo a parlare del trauma nazionale del 13 ottobre 2005, l’11 settembre 2001 della Cabardino- Balcaria, attentati mai veramente chiariti, che fecero un centinaio di morti: Degli amici hanno perso un figlio diciottenne negli attentati: era uno dei kamikaze.Una famiglia balcara impeccabile, pacifica e attenta al prossimo… Perché è successo? Fortunatamente questi gruppi non sono riusciti a fare breccia nella mentalità della gente, nemmeno nella montagna calcara più dura. Credo che dietro gli attentati ci sia stata una regia straniera.Venite a visitare il mio condominio per capire come qui ci sia armonia etnica: siamo di sette etnie diverse ma andiamo tutti d’accordo. …e la giornalista indipendente Zarema Khadartseva è invece uno dei tre fondatori del quotidiano indipendente Gazeta Yuga. Un’eccezione di libertà nel precario panorama mediatico del Caucaso settentrionale. Possiamo muoverci liberamente, anche se il governo reagisce ogni volta che pubblichiamo qualche notizia scomoda. Il giornale stampa circa 20 mila copie, il doppio del quotidiano di Natalia. E i lettori potrebbero moltiplicarsi, se solo la gente avesse i 10 rubli del suo prezzo: spesso tre o quattro famiglie si mettono d’accordo per comprarne una copia sola che poi si passano. Né di destra né di sinistra, Gazeta Yuga appare moderatamente conservatrice. I valori umani sono la nostra linea editoriale – spiega Zarema -. Cerchiamo di informare con notizie che non si trovano negli altri giornali, dando voce a persone che non hanno spazio nella stampa ufficiale. Esiste qui libertà di stampa? Non so se si può dire. Noi scriviamo liberamente, ma un giornale da solo non può fare la libertà di stampa. Sfogliamo l’ultimo numero: in prima pagina, dedicata alla politica ma con intrusioni sociali, due foto danno il tono: un ministro che lancia il suo nuovo partito si contrappone a una sessantenne che lavora su una gru otto ore al giorno. Un modo per mostrare come il Paese reale sia diverso da quello dipinto dalla classe politica. Qui – prosegue Zarema – non ci sono conflitti etnici, un’eccezione nel Caucaso settentrionale. Un modello? Non so. È certo che qui tutto è mescolato: problemi politici, etnici, religiosi e sociali. Gli attentati del 2005 sono stati una spia di questa commistione che lascia spazio aperto alla penetrazione di frange islamiste radicali tra i giovani, che sono i più vulnerabili per la disoccupazione e le ingiustizie. Tra troppo ricchi e troppo poveri la convivenza è difficile, tanto che riscuote un certo successo lo slogan dei wahhabiti: Tutti devono vivere e vestire modestamente. I giovani più sensibili, o si drogano o si danno alla religione. Piccolo grigio I problemi etnici qui non sono religiosi, se non marginalmente, tanto più che la repubblica ciscaucasica appare piuttosto refrattaria alla fede. Siamo allora andati alla ricerca di cristiani e musulmani. Padre Laurent Flichy, francese, appartiene alla Comunità dei frati di Saint-Jean, soprannominati i piccoli grigi per via del colore del loro saio: è il parroco cattolico di Nalcik. La chiesa consiste in un paio di appartamenti nel centro, dove si celebra la messa per le poche decine di fedeli della comunità. Qui in città – mi spiega padre Laurent dietro la sua barbetta pepe e sale – la comunità è costituita da un paio di famiglie e da qualche persona sola, in un contesto non facile: la famiglia è provata, l’alcolismo è altissimo, la disoccupazione è normalità. Un terzo della popolazione vive nell’agiatezza, non paga tasse, ha commerci illeciti e gestisce il Paese con leggerezza, mentre gli altri sono vittime dell’apparire a tutti i costi: magari a casa hanno la terra battuta, ma le unghie rosse e il telefonino ce l’hanno. C’è un forte senso religioso, molta buona volontà; ma tale fede non si radica perché manca un tessuto umano adeguato. Emerge una situazione ecclesiale assai precaria nella regione, ma che ha superato prove straordinarie. Si racconta di tre villaggi vicini a Stavropol abitati da armeni cattolici che avrebbero trasmesso la fede nei decenni comunisti: quando un prete qualche anno fa andò a visitarli, scoprì che tutti sapevano a memoria Ave e Pater. Per far fronte a questa assai complessa situazione, padre Laurent e confratelli hanno avviato una pastorale non convenzionale. Così egli si occupa di un gruppo di scout ortodossi, mentre un suo confratello, Elias, appassionato di montagna, porta i ragazzi nei rifugi e sulle vette; e ci si interessa di teatro francofono e di quell’equitazione che fa parte integrante della cultura – celebri nel mondo i cavalli cabardi -; padre Laurent ha capito che i ragazzi vittime delle piaghe sociali locali con l’ippica avrebbero potuto recuperare una loro dignità. L’eredità peggiore del comunismo – mi spiega padre Laurent – non sta tanto nello spirito ateo quanto nella mancanza di coscienza sulla verità: non ci si può fidare di nessuno, perché si cambia la propria verità quando fa comodo, per interesse e opportunismo. La moschea e le donne Appuntamento alla moschea. È venerdì e arriviamo mentre i fedeli sciamano verso casa, saranno un migliaio. Questo è il centro dell’Islam ufficiale, quello legato al po- tere politico. Ci riunivamo in un garage – attacca Ali Alievich, aiuto del muftì -, mentre oggi abbiamo un luogo di preghiera degno per la religione tradizionale della Cabardino- Balcaria. Durante il periodo sovietico la tradizione religiosa si è affievolita: chiese e moschee sono state chiuse e si insegnava l’ateismo. Anch’egli ripete che i problemi etnici non hanno una rilevanza religiosa. Fondamentalismi islamici? Anche qui – ammette – spira il vento wahhabita. Per contrastarlo seguiamo la sola via percorribile per una religione, cioè l’educazione. Il wahhabismo cresce sull’ignoranza. Perciò predichiamo il vero Islam. Un Islam dalle note locali assai caratteristiche, come a proposito della donna. La signora Ludmila era segretaria della Direzione spirituale dei musulmani di Cabardino- Balcaria: Certe tradizioni cabarde e balcare vogliono che la donna sia al pari dell’uomo e che non debba essere mai rinchiusa in casa. Queste tradizioni sono corrispondenti al volere del Profeta e non accettiamo imposizioni di tradizioni estranee alle nostre tendenze . Problemi tra musulmani cabardi e musulmani balcari? In moschea – risponde la donna – non c’è nessun contrasto, non viene chiesto a nessuno di che etnia sia. La professoressa La sintesi della pur breve conoscienza della repubblica ciscaucasica ci viene da Svetlana Akieva. Lavora e insegna all’Istituto politico di ricerca umanitaria della Cabardino- Balcaria. Suo tema preferito sono i rapporti multietnici. È balcara, minuta e pallidissima, vestita con un abitino a fiori blu degli anni Settanta. Viviamo insieme da secoli, cabardi e balcari. Prendete la mia famiglia. Le mie nonne abitavano in villaggi misti, e durante la deportazione dei balcari del 1944 sono rimaste nel villaggio, perché tutti si erano detti cabardi. Capita che un nonno sia cabardo e un nipote balcaro, e due fratelli possono dirsi uno balcaro e uno cabardo: ciò impedisce che ci si schieri gli uni contro gli altri. La professoressa s’infervora, e in qualche modo si dice nostalgica dell’epoca sovietica, come tanti da queste parti: Nell’Urss eravamo tutti uguali, ci si poteva rivolgere a tutti i giornali, si poteva entrare in qualsiasi ufficio e sbrigare le pratiche che occorrevano, perché i funzionari erano coscienti che potevano essere rimossi in qualsiasi momento. Ora non è più così: ogni funzionario è un piccolo zar, e non puoi fare nulla contro di lui. Qui in Cabardino-Balcaria non esiste una vera democrazia, che sia chiaro. Il sistema giudiziario funziona solo se il giudice non è corrotto. È un processo cominciato negli anni Novanta e poi via via peggiorato. Questo fa sì che d’improvviso vi siano delle esplosioni di ricchezza. I nostri giovani vivono gli uni accanto agli altri: d’improvviso qualcuno diventa ricchissimo mentre l’altro rimane poverissimo. Questo crea uno stato di rivolta tale che può permettere a delle idee fondamentaliste di farsi spazio. E tanta gente esce letteralmente di testa: i suicidi aumentano in modo esponenziale, soprattutto tra gli adulti di 40-50 anni che non hanno più lavoro. Si capisce perché le idee egualitarie dell’Islam facciano breccia in tanta gente. Si ferma, la Akieva, poi si corregge: Ma nonostante tutto la gente da qualche tempo comincia a dire: Qualcosa dipende anche da me. Questa è la speranza democratica della Cabardino- Balcaria. CABARDI E BALCARI Circa 900 mila persone abitano nella Cabardino-Balcaria (12.500 kmq), il 55 per cento di etnia cabarda (concentrata nelle campagne), il 25 russa e il 12 balcara (che invece occupa prevalentemente le montagne). Si stima che il 45 per cento della popolazione sia musulmana, il 12 cristiana e il resto agnostica. La capitale è Nalcik. Sul suo territorio si erge il monte Elbrus, 5642 metri, la più alta cima dell’Europa. Secondo le stime più attendibili, la disoccupazione supera l’85 per cento. L’eroina nazionale è Maria la Cabarda, terza moglie di Ivan il Terribile, colei che portò la regione a unirsi alla Russia nel 1557. La repubblica, con alterne vicende, è operante dal 1921.

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