Il confine che non c’è

La questione sbuca fuori, da affermazioni di politici e di esponenti dell’area religiosa. È la questione del confine – assolutamente impalpabile – fra il campo laicista e quello religioso. Ci s’accusa, a torto o ragione, di invasione di campo. Ma purtroppo non c’è una rete da pallavolo che delimiti i due terreni di gioco. E nemmeno una maglietta che differenzi le due formazioni. È ovvio che, in mancanza di questi presupposti, parlare di confine significa o mettersi su un terreno scivoloso o esprimersi in modo così diplomaticamente generico da non dire assolutamente nulla. Ma è tuttavia doveroso tentare di dare un contributo a questa riflessione che è in atto su vari fronti. Molto spesso ci s’imbatte nell’idea, velata o no, che l’armonia sociale, la pace, siano possibili solo in un ambito laicista dove la religione sia un fatto puramente privato; e che una forte identità religiosa sia un ostacolo a una società più matura e tollerante delle diversità e dei gusti di ogni individuo. Ma già con i termini è difficile raccapezzarsi. La parola laico tende infatti ad assumere significati sempre più fumosi. Dal significato originario di laico come credente non appartenente al clero, il termine viene oggi ad assumere i connotati di laicismo e laicità con i quali s’intende un insieme di concezioni che propugnano la completa indipendenza e autonomia dello Stato nei confronti di qualsiasi confessione religiosa. Ma che spesso sottintendono anche la negazione delle verità rivelate, il rifiuto delle istituzioni che le propongono e la rivendicazione della ragione come unica fonte di conoscenza. Questi significati si complicano ulteriormente se si apre lo sguardo sulle religione monoteiste: il laicismo che scaturisce dal cristianesimo (già diverso tra cattolici, ortodossi ed evangelici) non è affatto uguale a quello che nasce nell’ebraismo o nell’Islam. Per gli ebrei l’ambiguità tra laicismo e religione è intrinseca a un’affermazione dell’Antico Testamento che nei secoli non smette di riemergere provocatoriamente, ricordando il destino speciale e in un certo senso misterioso del popolo eletto: Sarete per me un regno di sacerdoti e un popolo sacro (Esodo 19, 6). Questa frase non cessa di mettere in imbarazzo il sionismo di matrice laica e socialista che ha portato alla costituzione dello Stato di Israele. Esso, cercando avvedutamente di non chiarire le posizioni, ha tentato di unire due elementi divergenti: la fede giudaica e l’illuminismo; ed è stato allo stesso tempo una reazione sia all’antisemitismo sia all’ebraismo religioso. Tanto che alcuni affermano, con un pizzico di ironia, che è riuscito a creare uno Stato in cui gli ebrei possono finalmente non essere ebrei. È interessante a questo proposito registrare l’affermazione dell’allora capo di stato maggiore Itzak Rabin, che nel ’73 disse: I paracadutisti che presero il Muro del Pianto e appoggiarono il capo in lacrime su quelle pietre, compirono un atto il cui simbolismo non ha paragoni nella storia umana. Questa scena sulla Spianata del Tempio, che nessuna parola ha il potere di scrivere, ha rivelato, come in un lampo di luce, verità profondamente nascoste . Parole comprensibili sulle labbra d’un rabbino, ma alquanto anomale su quelle di Rabin, agnostico con un’educazione socialista. Indici però che anche il messianismo laico sionista ha radici che affondano, sebbene invisibilmente, nell’humus religioso. Nell’Islam, la relazione tra religione e laicità assume colorazioni assai variegate sebbene, nella religione di Muhammad, fede e politica siano assai connesse. La creazione di Stati laici è avvenuta con la lezione di Atatürk in Turchia, con quella di Nasser in Egitto, per citare due celebri esempi. Ma molte nazioni a maggioranza islamica sono state influenzate dalla grande rivoluzione teocratica dell’Iran di Khomeini. L’immensa e genuina tradizione religiosa islamica, sia del passato che del presente, è portatrice e custode di alti valori morali. Anche se ora è a volte offuscata nella scena internazionale dall’ascesa di gruppi d’ispirazione radicale che, resuscitando controverse interpretazioni del Corano (come quella wahhabita), si sono fatti portavoce d’intransigenze religiose. Spesso sfruttate per consolidare fragili identità nazionali e per mobilitare masse in regimi che temono il confronto con idee esterne. È emblematica, tra le altre simili, la recente vicenda dell’egiziano Higazi e di sua moglie Zeinab, convertiti al cristianesimo dall’Islam. Soad Saleh rettore dell’università di scienze islamiche al- Azhar chiede che lo Stato esegua la condanna a morte per chi rinnega l’I-slam. Mentre Ali Gomaa, gran muftì del Cairo, una delle massime autorità del mondo sunnita, dichiara che il cambiare religione deve essere accettato, se è frutto di libera scelta. Aggiungendo che ciò che importa è la fede nel Dio unico e Creatore e non l’adesione all’una o all’altra manifestazione storica con cui Dio si è rivelato agli uomini. Due volti dell’Islam in cerca di una propria identità. Nel mondo cattolico, in particolar modo in Italia, recenti vicende politiche, specialmente legate a questioni etiche, hanno acceso vivaci dibattiti su invasioni del campo laico o di quello religioso. Ci si appella alla frase di Gesù: Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Una frase che però non traccia alcun confine: afferma che un cristiano deve essere allo stesso tempo un esemplare cittadino e un esemplare uomo di fede. Che si rimette però in ultima istanza sempre all’Eterno, secondo il fulcro dell’insegnamento dei Profeti e di Gesù: essere fedeli a Dio anche nei casi estremi in cui si debbono rifiutare con fermezza le leggi inique dello Stato. Schiere di martiri dei secoli passati e di quello presente testimoniano questa necessaria fedeltà. Il cristianesimo – ma anche le altre religioni monoteiste – di per sé, non possono quindi mai essere un fatto privato, investendo tutti gli ambiti della vita del fedele. Forse in questa ottica vanno intese le parole del cardinal Newman, che nell’Ottocento scriveva: La Chiesa cristiana, come società visibile, è necessariamente una potenza politica o un partito. Può essere un partito trionfante o perseguitato, ma deve sempre avere le caratteristiche di un partito che ha la priorità nell’esistere rispetto alle istituzioni civili che lo circondano e che è dotato, per il suo latente carattere divino, di enorme forza e influenza fino alla fine dei tempi. Va inoltre tenuto conto del fatto che il laicismo occidentale è intrinsecamente legato al cristianesi- mo. Ne condivide le profonde radici; è nato come una rivolta contro di esso, spesso giustificata dalla non perfette – e a volte addirittura deplorevoli – sue realizzazioni sociali e politiche. Per ritornare alla domanda di partenza, allora è proprio vero che per vivere in armonia, in pace, si debba accettare una visione laicista e rifiutare i radicalismi religiosi? La storia pare che dica di no. Tante fra le più significative e universali esperienze dell’umanità sono nate da una radicale scelta religiosa. Ne sono esempi san Francesco, il Buddha, per far solo due nomi. Il contesto politico non può infatti che trarre beneficio dall’impegno di persone che vivono in modo radicale la propria convinzione monoteista. Che si fanno messaggere, con la propria vita, delle realtà del Cielo qui in terra, illuminando le faccende umane con l’esperienza che scaturisce dalla scelta religiosa; e che si mettono al servizio della verità, senza cedere a tentazioni esclusiviste o violente. C’è una frase nella Scrittura che chiarisce la posizione, almeno di cristiani ed ebrei, nelle vicende del mondo: E non avrete parte fra le nazioni (Nm 23, 9). Il non aver parte fra le nazioni non significa ritirarsi dalla vita sociale e politica; vuol dire non partecipare al gioco amorale delle nazioni. Il problema infatti non è quello di tracciare un’improbabile linea di demarcazione fra Stato e Sinagoga, fra Stato e Chiesa, fra Stato e Moschea, ma di far ritornare con forza la religione vissuta in modo radicale, personalmente e collettivamente, nello scenario politico. Per favorire, all’interno d’uno stato moderno dovutamente pluralista e laico, lo sviluppo d’una partecipazione attiva che ha a cuore il bene comune e che, rifiutando le logiche degli interessi di partito – anche a costo di essere impopolare o emarginata – si faccia portatrice di moralità nella vita civile.

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