Il coming out pre Sinodo di Charamsa

Alziamo lo sguardo dal caso singolo e non lasciamoci prendere dal polverone mediatico
Charamsa

Quando nel 2002 scoppiò lo scandalo degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica statunitense, in seguito ad un’inchiesta pubblicata sul quotidiano Boston Globe, l’opinione pubblica rimase scandalizzata non solo dalla portata del fenomeno, ma anche dal silenzio della Chiesa, che rimase travolta dallo sdegno generale verso un’istituzione considerata troppo omertosa.

 

D’accordo, la Chiesa si è mossa senza dubbio in ritardo; fatto sta che ad oggi nessun’altra organizzazione, pure interessata dallo stesso fenomeno, si è data così da fare per cercare di capire cosa stia accadendo al proprio interno, e ben pochi si sono preoccupati di riferirlo, magari riportando gli sforzi di rinnovamento dei programmi formativi dei seminari.

 

La vicenda di Charamsa cosa c’entra? Insomma, siamo ormai abituati a vedere la Chiesa sotto riflettori grossolani. Non serve qui difendere o accusare, ma il fragore delle notizie ci assorda e si impone, il frastuono rischia di annebbiarci la mente e, come per l’effetto di una sostanza eccitante, mette addosso una falsa energia che in realtà ci impedisce di prendere spazio e tempo per riflettere.

 

Fermiamoci un attimo e non affrettiamo considerazioni “di pancia”. Tralasciamo quindi la lapalissiana considerazione delle fortuite coincidenze di un coming out del genere proprio a ridosso del Sinodo sulla famiglia, e proviamo invece a spostare l’attenzione dal contenuto della vicenda alla sua modalità di espressione. Non perché il contenuto non sia abbastanza importante, sia chiaro, anzi, al contrario: l’amore omosessuale, l’astinenza sessuale dei celibi e dei casti per scelta vocazionale, qualunque orientamento abbiano (e comunque non certo «l’astinenza totale dalla vita d’amore», come mons. Charamsa avrebbe detto), sicuramente devono avere uno spazio nuovo ed adeguato di riflessione seria e competente, in questo tempo di trasformazione antropologica. Ma è curioso che sia lo scoop mediatico il modo per chiedere attenzione.

 

Che tristezza non trovare altre vie. Che tristezza scegliere di esprimere la propria sofferenza – perché pur sempre di disagio si tratta altrimenti perché fare proclami? –, degna di ogni rispetto ed accoglienza, declassandola a primo piatto mediatico.

 

Forse che nessuno prestava attenzione sufficiente a quello che voleva dire? Oppure ormai qualunque emozione, di gioia, come di dolore, finché non viene resa pubblica, e pubblica in grande stile, non è abbastanza vera per chi la sperimenta?

 

Siamo ancora un po’ adolescenti dunque, di quelli che non sentono di esistere finché non mettono in Rete, anonima e indifferenziata, chi sono e cosa provano, e arrivano letteralmente a disperarsi se i social non rimandano loro, fra l’altro in pochi minuti, un alto indice di consenso. E come loro, gli under 18, abbiamo pure noi bisogno di un palcoscenico per buttar fuori perfino le esperienze più intime, incapaci di trovare spazi adeguati e il giusto ascolto, noncuranti di altro fuorché di noi stessi e di quello che si ha da dire, a chi e come non importa, perché il limite dell’altro e dell’altrui sensibilità “non è un problema mio”. Ecco, questo sarebbe l’amore tanto osannato.

 

 

Chiara D’Urbano – Psicologa e Psicoterapeuta A.I.P.P.C (Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri cattolici)

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