Il canto dei Mille Tori

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Nella notte di Hidirellez, tra il 5 e il 6 maggio, i santi Elia e Hizir s’incontrano là dove due stelle si uniscono; la vita si ferma dappertutto nell’universo, per poi riprendere più vivace, più forte, più feconda che mai; e chi scorge quell’incontro di luce vedrà qualunque suo desiderio esaudito. Tale almeno è la credenza delle genti nomadi dell’Anatolia. La tribù yoruk il cui capo è Suleyman Aga decide di chiedere, in quella notte, un angolo di terra nella valle della Cukurova, dove piantare le sue tende, far pascolare le greggi e non estinguersi; senonché nel momento magico in cui le stelle s’incontrano, c’è chi si addormenta e chi, dimenticando l’accordo da cui dipende il futuro di tutto un popolo, esprime un desiderio suo particolare. Così la tribù, sempre più povera, sempre più decimata dagli stenti e dalle malattie, respinta inesorabilmente dagli aga, dai bey e dai contadini della valle, è condannata ad un esodo senza fine verso un’impossibile meta. Quella narrata da Yashar Kemal nell’ultimo suo romanzo tradotto, Il canto dei Mille Tori, è un’epopea che si aggiunge alle altre nate dall’arte di questo grandissimo scrittore di origine curda. Un’epopea della sopravvivenza, gremita di personaggi che ti si scolpiscono nell’anima. Come Haydar Usta dalla lunga barba color cuoio, Don Chisciotte dalle mani callose sempre avvolto nelle faville della sua fucina e convinto che la spada che forgia da tutta una vita risolverà ogni problema. Come il piccolo Kerem, che reagisce al sopruso e lascia la tribù per riprendersi il falchetto che gli è stato sottratto. Come Ceren, la bella tra le belle, che si strugge per il perduto Halil pur sapendo che dal suo sì a Oktay Bey dipende la salvezza del clan. O come Suleyman Kahya, forse il personaggio più tragico, capotribù schiacciato dalle sue responsabilità e lui stesso ormai solo l’ombra della gloria d’un tempo. E lo sfondo non può che essere la Cukurova di Kemal, con le sue montagne affilate (i Mille Tori sono appunto fra queste), i suoi cieli sconfinati, le sue passioni senza mezzi toni, rosse come lo sono serpenti quando s’innamorano. Al di là dei toni fiabeschi, una vicenda terribilmente reale del recente passato, che richiama altre tragedie odierne: quelle di popoli in lotta per un proprio spazio vitale, e che minacciano di sparire in- sieme alle loro ricchezze culturali. Kemal la narra da par suo, con umana pietà, elevando quasi un monumento all’uomo che soffre con dignità. Sicché lo stesso grido disperato che ne promana si traduce in poesia, in canto doloroso e struggente che riecheggia nell’anima ben oltre la lettura del libro. Un popolo che scompare Abbiamo dato un nome a ogni spanna di questa terra, le abbiamo dato il nome delle nostre tribù. Perché il nostro popolo non sia dimenticato, perché dia inizio a una sua discendenza su questa grande terra… Ci hanno mandato per strade polverose, ci hanno ricacciato oltre le montagne innevate. Ci hanno trascinato in avventure d’ogni sorta. E noi siamo diventati tutt’uno con l’Anatolia, e siamo cresciuti con la sua terra e le sue pietre, con i suoi corsi d’acqua e i suoi venti, con i suoi caravanserragli, i suoi palazzi, i suoi templi e le sue moschee, con le sue grandi città. Siamo cresciuti con le sue canzoni, le sue tradizioni, il suo sapere, la sua esperienza vecchia di migliaia di anni. Attaccati come la carne all’osso, come la pioggia alla terra… In ogni provincia, in ogni regione, su ogni spanna di terra abbiamo lasciato una parte di noi… Ovunque dietro di noi è rimasto a marcire sul terreno un brandello delle nostre tende. Eravamo spuntati da una stessa fonte, solida, inestinguibile, maestosa, gorgogliante come un torrente. E ci siamo divisi in mille rivoli. E i rivoli si sono dispersi, rimpiccioliti, asciugati… Forse le nostre canzoni non si canteranno mai più, le nostre danze non si danzeranno più, i fratelli, i saggi, gli iniziati non si incontreranno mai più per danzare la semah. Il sole e la luna sorgeranno e tramonteranno ancora, ma non per noi. Il nostro sapere, le nostre tradizioni e i nostri costumi si perderanno nel mare dell’oblio. Nessuno saprà più quel che proviamo davanti a un albero che germoglia, al vento che spira, all’uomo che nasce, cresce e poi muore. Nessuna saprà dell’affetto che nutriamo per il fiore che si schiude e il ghepardo che ruggisce e la pioggia che cade e la terra che diventa verde e l’aquila che depone le uovaa e il falco che riporta la preda e il puledro dal lungo collo; nessuno saprà del nostro amore per l’universo e per ognuna delle sue creature, della forza straordinaria che ci dava il sapere di essere una parte di questo tutto… Nessuno lo saprà, e le generazioni a venire non chiameranno più il nostro nome. Scomparsi…

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