Il bene sul male

Un uomo libero, davanti all’assurdità del gulag. L’onestà e la scrittura per resistere in Varlam Salamov.
Varlam Salamov

Gulag, in russo, era una sigla. Stava per “direzione principale dei campi di lavoro correttivi”. È diventato un sostantivo, gulag, per indicare i tristemente celebri lager sovietici. A volerli era stato un certo Iosif Vissarionovič Džugašvili, più conosciuto al mondo col soprannome di “Acciaio”, che in russo si dice “Stalin”. Lui, l’uomo d’acciaio, era stato, con Lenin e Trockij, il fondatore del primo Stato comunista del mondo, l’Unione Sovietica, e alla sua morte, nel ’53, l’aveva portato ad essere una superpotenza mondiale. Ma negli armadi di Stalin gli scheletri non erano pochi. Alcuni storici fanno ammontare a circa 20 milioni i morti a causa delle repressioni fra il ’20 e il ’45: per fucilazioni, per carestie provocate e non soccorse, in seguito alle deportazioni nei gulag.

 

Varlam Salamov è uno di quelli che il gulag l’ha vissuto. Fu arrestato nel ’29 per aver diffuso, con altri intellettuali, il cosiddetto Testamento di Lenin: un documento nel quale, poco prima di morire, il leader bolscevico proponeva al Congresso la rimozione di Stalin dalla carica di segretario generale, giudicandolo «troppo grossolano». Per quel motivo Salamov fu condannato a tre anni di lavori forzati in uno dei primi lager staliniani, quello sul fiume Višera, negli Urali. Poi subì altre due condanne nelle desolate lagune ghiacciate della Kolyma, in Siberia: la prima a cinque anni per «attività contro-rivoluzionarie»; poi ancora nel ’43 a dieci anni, per «agitazione antisovietica»: aveva scritto una recensione favorevole a un autore anticomunista, Ivan Bunin, definendolo «un classico scrittore russo». Salamov è sopravvissuto agli orrori dei gulag. E poiché è uno scrittore, ne ha scritto. In una pagina annota d’un amico: «Gli spezzarono la schiena a furia di botte, a Lefortovo, durante un interrogatorio. Ma è ancora vivo e scrive…».

 

Sì, pure Salamov ne è uscito vivo ed ha scritto i celebri Racconti della Kolyma, e anche Višera, che ora esce in italiano (Adelphi). In Italia i suoi scritti sono stati pubblicati con ingiustificato ritardo. Uscirono nel ’76 ma ben presto scomparvero dagli scaffali delle librerie; mentre nel 1980 si leggevano in Francia i Racconti della Kolyma, da noi esponenti dell’intellighenzia ed editori vicini al Pci non li accettarono, ritenendoli provocatoriamente reazionari e pieni di favole. Vengono in mente le polemiche all’uscita del Libro nero del comunismo, sul quale Norberto Bobbio aveva però scritto: «L’utilità e la novità dell’opera è aver individuato il nesso indissolubile tra comunismo e terrore».

 

Ora che quei tempi ottusamente ideologici sono un po’ tramontati, si può leggere Salamov per quello che è. Il racconto d’un uomo libero, autentico, che rifiuta ogni etichetta; d’uno scrittore che è stato lì, a due passi, ha visto, sentito, capito; ha vissuto sulla sua pelle. Uno che lì ha perso tutto, tranne la dignità d’essere uomo. Roberto Saviano, quello di Gomorra tanto per intenderci, che cura la prefazione di Višera, esordisce così:«Leggere Varlam Salamov mi ha cambiato la vita». In effetti è un’esperienza traumatica, ma salutare. Salamov, quando è stato arrestato la prima volta, aveva 22 anni. Dopo tre anni di lager, annotava: «Che cosa mi ha dato Višera? Tre anni di disillusioni quanto agli amici, e di speranze giovanili infrante. Un’insolita fiducia nella mia forza vitale… solo, senza amici e senza nessuno che la pensasse come me, sopravvissi a quella prova fisica e morale. Ero saldo sulle mie gambe e la vita non mi faceva paura. Avevo capito che la vita è una cosa seria, ma non bisogna temerla. Ero pronto a vivere».

 

Il sistema di epurazioni di Stalin era basato sulla «calunnia assurta a principio»; egli aveva creato una nuova e perversa scienza del diritto. Le carceri erano piene di innocenti increduli al primo impatto col sistema repressivo, tanto assurdi parevano loro i motivi per i quali erano stati imprigionati; poi arrivavano gli interrogatori senza sosta o i lunghi silenzi tra le pareti delle celle d’isolamento; le accuse completamente inventate e le prove immaginarie: sembrava d’essere entrati in un incubo e ci si trovava con i nervi a pezzi. Per i più forti arrivavano le botte e le torture, per estorcere una confessione. Fiottavano le testimonianze false, sempre firmate e all’apparenza assurdamente regolari; s’innescavano sistemi di delazione, per cui ci si accusava l’un l’altro, con la speranza d’avere una pena minore o solamente per un tozzo di pane in più. Il sistema comunista arrivava in questo modo a chiedere al detenuto che lo autorizzasse a punirlo. Immersi in quel mondo in cui tutto era distorto, il lavoro forzato nei lager sembrava una liberazione. Ma non lo era. Con temperature che rasentavano i 50° sotto zero, i detenuti dei gulag lavoravano anche sedici ore al giorno nelle miniere. Morivano di fame o di gelo o stremati dal lavoro. Altri venivano fucilati mentre i compagni di prigionia erano obbligati ad urlare “hurra!” a Stalin.

 

In quell’inferno, che mescolava in modo irreale detenuti e carcerieri, Salamov ha incontrato uomini e donne di tutti i tipi: malavitosi, corrotti, traditori, violenti, ma anche autentici eroi. Lui stesso andava fiero di non aver mai tradito nessuno per migliorare la sua condizione di vita. Nelle pagine di Salamov Dio non c’è. C’è l’uomo, che s’erge come un colosso su quell’assurdità per dimostrare che si può essere autenticamente uomo, libero dentro di sé, anche in condizioni estreme. Tutta quella sofferenza incontrata, per Salamov ha comunque un senso: dimostra quanto l’animo umano sia capace di salvarsi e di credere nel bene e nella bellezza, anche in condizione avverse. Scrive: «I miei scritti sono la conferma del bene sul male».

 

L’uomo, nonostante tutto

«Il lager è fatto a immagine del mondo».

«Da solo: è questa nel lager la regola principale».

«Fissai alcune regole essenziali di condotta. Non sarei mai stato un delatore o una spia. Sarei stato sincero in tutti quei casi in cui la verità, e non la menzogna, andava a vantaggio di un altro essere umano. Mi sarei comportato con tutti allo stesso modo, superiori e inferiori. Non avrei temuto niente e nessuno. La paura è un sentimento vergognoso e depravante, che umilia l’uomo. Per il resto avrei fatto conto sulla mia intuizione e sulla mia coscienza».

«Malversatori e ladri del denaro pubblico vengono giudicati da ladri e malversatori che non sono stati ancora acciuffati».

«Trentacinque anni è l’età giusta per violare la legge. È il momento in cui un uomo si convince, in cui scopre che “sotto il peso della croce lordo di sangue si trascina il giusto, ovunque il disonesto con fama e onori è accolto”. È la logica che induce l’uomo onesto a commettere un crimine».

«Lo scrittore è giudice del tempo. Il giornalista, solo un garzone dei politici».

 

Brani tratti da “Višera” (Adelphi) di Varlam Salamov.

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