Il Belgio ad un altro incrocio della storia

La crisi di governo ha aperto la strada alle elezioni di metà giugno. Di fronte al rischio di spaccatura del Paese, emerge il valore del buon compromesso.
parlamento belgio

Poco dopo Pasqua i quattro partiti di maggioranza hanno affrontato un problema che da tre anni rende difficile la dinamica politica del Paese: la ridefinizione delle circoscrizioni elettorali di Bruxelles e dintorni. Una questione su cui le due comunità linguistiche, la fiamminga e la francofona, si scontrano. I fiamminghi vogliono la scissione del collegio elettorale per concludere la riforma dello Stato in senso federale secondo le frontiere linguistiche, mentre i francofoni sono favorevoli allo status quo che dà a coloro che vanno ad abitare in questi comuni, storicamente in territorio fiammingo, alcuni vantaggi, sentiti da partre fiamminga come una minaccia di conquista indebita da parte di una cultura che storicamente ha reso non facile l’emancipazione delle Fiandre. Ma per i francofoni questi comuni, con terreni meno costosi e qualità di vita assai superiore alla capitale, sono una calamita forte: alcuni hanno attualmente fino al 70 per cento di abitanti francofoni.

 

Ma perché queste normali dinamiche, che dappertutto nel mondo incidono sul tessuto urbano e cambiano gli equilibri raggiunti un tempo, sollevano qui un caso di Stato? Il re nella precedente crisi di governo aveva sollevato l’esecutivo dalla responsabilità concreta della questione, così che questo potesse concentrarsi sulla crisi economica. Tuttavia questo problema, pur minore se paragonato ad altri che toccano la popolazione (crisi economica, disoccupazione, immigrazione), è prima di tutto simbolico. La parte fiamminga del Belgio (il 60 per cento del Paese, di cultura nordica) è molto legato allo ius soli, il diritto del territorio, mentre la cultura francofona (di tipo latino) è legata profondamente e visceralmente allo ius personae, al diritto della persona. Il re aveva affidato all’ex presidente del consiglio Jean-Luc Dehaene il compito di elaborare un compromesso, o almeno di preparare discretamente il terreno ed eventualmente fare delle proposte concrete.

 

Dehaene, democristiano fiammingo che abita proprio in quella periferia di Bruxelles oggetto della contesa, ha lavorato dal 1970 a tutte le riforme in senso federalista del Paese e gode personalmente della stima di tutti i partiti moderati. In una lettera che accompagnava le sue conclusioni ha scritto qualche riga che riassume il nocciolo della questione, ricordando un’osservazione di suo padre, un noto psichiatra. In una discussione bisogna cercare di capire o almeno di entrare nelle ragioni della posizione dell’avversario, e viceversa. Un compromesso significa poi necessariamente che ognuno lascia da parte qualche pezzo della propria verità.

 

Il Belgio infatti è nato come un compromesso tra le grandi nazioni ed è sempre continuato in questo senso. Non per niente quando una necessità di mediazione sul piano internazionale si fa sentire l’esperienza di qualche figura di rilievo belga viene apprezzata, come nel caso della costruzione europea (Henri Spaak) o l’attuale presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. È la ricchezza dell’esperienza di questo piccolo Paese, paese frontiera tra Nord e Sud dell’Europa con un’esperienza ricca della diversità. Un Paese piccolo ma con 10 milioni di abitanti, campione mondiale dell’esportazione pro capite in cui la ricchezza degli abitanti è aumentata ancora l’anno scorso. Un Paese opulento che sta invecchiando, ma che con il suo modello sociale che evita grandi conflitti per una distribuzione assai riuscita della prosperità ed un ottimo servizio sanitario rimane uno dei luoghi dove si vive meglio.

 

La settimana scorsa è caduto il governo e questa settimana si scioglierà il Parlamento, per andare alle urne verso metà giugno. Sembra che siano soprattutto logiche partitiche che hanno prevalso. Il giovane neoeletto presidente del partito liberale, che arriva dal mondo dell’impresa, ha deciso di abbandonare il negoziato: il suo partito, in perdita di consensi nella parte fiamminga da anni, ha tutto da guadagnare da una cura d’opposizione. La sua è una specie di fuga in avanti in parte anche legata al rifiuto di un sottopartito francofono che ha solo due seggi al Parlamento nazionale, e che rappresenta i 50 mila elettori che spingono per non cambiare il collegio elettorale. Il presidente di quel piccolo partito si è legato al partito liberale francofono molto più moderato, ma non ha saputo piegare il suo alleato.

 

In una situazione analoga si era trovato il partito democristiano fiammingo, che dal 1945 fornisce quasi tutti i presidenti del Consiglio. Si era alleato tre anni fa con un partito che esige un modello confederale piuttosto che federale, da cui si è separato l’anno dopo. La Dc fiamminga ha pagato questa scelta con una perdita del 7 per cento dei consensi, prezzo che il liberali francofoni non se la sono sentita di pagare, perché rischiava di costar loro caro nel sogno di diventare il primo partito francofono. C’era il sentore questa volta che i partiti moderati avrebbero potuto concludere il compromesso agognato. Ma nella Fiandre, anche se secondo i ricercatori dell’Università di Lovanio solo il 10 per cento degli elettori vuole una scissione del Paese e dunque la fine del Belgio, e questa cifra non si è mossa un granché negli ultimi anni, i partiti populisti che vogliono andare più o meno decisamente in quella direzione sembrano avvantaggiati nei sondaggi.

 

I francofoni ormai si chiedono se troveranno ancora moderati dall’altra parte con cui parlare dopo le elezioni, mentre i fiamminghi non capiscono perché i francofoni si lascino prendere in ostaggio da 50 mila elettori per evitare di parlare di buona gestione (una questione percepita culturalmente in modo diverso da Nord a Sud) senza per questo rompere la solidarietà sociale (la parte fiamminga è più prospera). Spesso nei fatti si tratta di sfumature, ma se il buon senso suggerisce la moderazione, la domanda è se la maggioranza della gente nella parte fiamminga ascolterà i partiti populisti o i partiti moderati allenati al senso del compromesso.

 

Il modello belga in realtà è basato sulla non-egemonia: non vengono mai prese misure contro la parte linguistica minoritaria a colpi di maggioranza, ma sempre tramite negoziato. Ma come in un matrimonio, le velocità diverse dei partner (i fiamminghi che vogliono riformare lo Stato e i francofoni che hanno altre priorità) hanno giocato a sfavore. Davanti all’alternativa di un Belgio che si spacca (pacificamente, come nel caso dell’ex Cecoslovacchia) la forte maggioranza nel Paese continua a volere stare insieme. Individualmente i belgi non hanno veri problemi tra di loro, e istituzionalmente si ha la percezione che davanti a prospettive che pochi vogliono, si è arrivato ad un accordo anche nel Sud del Paese su un nuovo pacchetto di riforme. Le elezioni avvantaggeranno i più moderati ?

 

Il belga comune è stanco di questa situazione, ma forse bisogna riconoscere che il compromesso come frutto di rapporti non-egemonici è più nobile che il separarsi tra gente che dai tempi dei romani era insieme non Nord contro Sud, ma tra Ovest ed Est. Il Belgio apparteneva anticamente all’ovest alla Francia (era la sua provincia più ricca) e all’est al Sacro romano impero. Il senso dei legami antichi vincerà contro il sentimento di rappresentare una nazione giovane voluta dopo Napoleone dai grandi d’Europa? O semplicemente il buon senso, che dice che è meglio il meno perfetto insieme che il perfetto poi non così perfetto separati? Non c’è pericolo alcuno di violenze nelle strade, è un dibattito civile; in fondo non c’è nessuna nazione che non ha il suo Nord o Sud, e nessun uomo politico che non ha dovuto fare dei compromessi. Un buon compromesso è forse l’immagine di una vita che in essenza è questo: saper dare e saper ricevere senza far perdere la faccia all’altro, anzi vincere insieme.

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