Il battello di Zanzibar

Mi è difficile raccontare il mio secondo viaggio in Tanzania. Ci sono tornata, dopo due anni, con grande gioia. L’impatto più forte con l’Africa era avvenuto infatti la prima volta. Certo, non mi ci ero recata per turismo, ma per condividere, almeno per breve tempo, la vita di quelle focolarine che in Africa ci stanno da decenni, nell’impegno di inculturarsi. Ed anche questa volta ho sperimentato la grande difficoltà di definire in poche parole, persino a me stessa, l’esperienza vissuta in un mese e mezzo fatto di incontri di persone e situazioni, di corse in daladala (tipici mezzi di trasporto che vengono stipati all’inverosimile di passeggeri) su strade piene di buche; di visite all’ospedale o funerali per una morte improvvisa (qui all’ordine del giorno); di non potersi rinfrescare dopo un viaggio di sette ore nella polvere perché manca l’acqua; di mercati, negozi, fermate di autobus dove, in una sana confusione, nessuno si lamenta perché deve attendere, ma continua a sorridere e a comunicare col vicino… Ripensando a tutto ciò capisco qual è la cosa più preziosa che mi sono portata dalla Tanzania: l’incontro con tanta gente, il cuore, la mente, gli occhi colmi di tante storie vere meravigliose, che riaccendono quella speranza che vorrei trasmettere facendo parlare alcuni dei miei amici africani. Tesori nascosti Non mi sembra vero di approdare a Zanzibar, uno di quei paradisi per turisti che troviamo spesso nei depliant: spiagge bianchissime, palme da cocco, mare cristallino. Ma è anche un’isola con storia e cultura antichissime, dagli abitanti fieri e molto poveri, in maggioranza mussulmani. Nel dicembre scorso un piccolo gruppo di cristiani, a pochi chilometri dalla capitale Stone Town, ha conosciuto quasi per caso la Parola di vita, grazie ad alcune persone del focolare arrivate da Dar es Salaam. Non avevano mai sentito parlare del movimento, ma sono rimasti subito affascinati dalla possibilità di vivere le parole di Gesù, in una situazione dove spesso non si può parlare di lui o dichiararsi cristiani, ma lo si deve testimoniare prima di tutto con la vita. A pochi mesi da quel Natale 2003, a Zanzibar c’è ormai un bel gruppo che vive la spiritualità dell’unità, formato da mamme, papà, giovani e bambini, artigiani, insegnanti, impiegati. Entusiasti anche i membri dei due cori della cattedrale, prima sempre in competizione tra di loro. Racconta Edward: Da quando abbiamo fatto nostro questo modo di vivere facciamo le cose in armonia, ci aiutiamo e non c’è più tensione. Per Michael, un giovane soldato di professione, sposato con figli, è stata una vera scoperta che gli ha rivoluzionato la vita il sapere che in altre parti del mondo i cristiani sono in minoranza e devono vivere il vangelo fino all’eroismo. Ti ringrazio perché attraverso le esperienze dei miei fratelli di Gerusalemme ho capito che la nostra forza sta nell’amore, d’ora in poi lo voglio vivere, a cominciare dalla mia famiglia e in tutti i rapporti, anche con persone di altre religioni. Gli fa eco suor Esther, che aveva conosciuto la spiritualità dell’unità in Egitto. Vive infatti a Pemba, isola adiacente a Zanzibar, dove è urgente e attuale il dialogo fra le due religioni. È da lì infatti che sono partiti i fondamentalisti per gli attentati a Zanzibar contro la cattedrale cattolica. Le chiedo come viva in questa situazione. Ogni giorno ho mille occasioni per mettere in pratica quell’amore fino alle ultime conseguenze che ci ha insegnato Gesù e che ho trovato nelle comunità del movimento. Quando trascorro ore o giornate intere in tribunale, dove si dirimono questioni tra membri di religioni diverse, mi aiuta pensare solo all’attimo presente, per infondere coraggio, mettere pace, ridare fiducia che le cose si possono cambiare. Questo è il mio contributo. Una volta, ad esempio, una famiglia ha cacciato via di casa la figlia, rimasta incinta con un ragazzo di una religione diversa. La ragazza non aveva altra alternativa che andare a vivere con lui, ma anche l’altra famiglia la rifiutava. Mi sono adoperata per convincere i genitori a riaccogliere la figlia e perdonarla. Suor Esther mi ribadisce che non si potrebbe trovare di continuo la forza di ricominciare se non ci fossero altri della comunità con cui condividere difficoltà e conquiste, incoraggiandosi a vicenda sulla strada della fraternità universale. Sono contenta che lo spirito del focolare stia penetrando in Zanzibar, ne abbiamo bisogno. Anche Severin ha conosciuto da poco il movimento, e mi racconta come la sua vita ne sia stata completamente rivoluzionata. Qui è inconcepibile che un uomo faccia i lavori di casa, come è impensabile che un papà si occupi dei figli piccoli. Tornando da un incontro dei Focolari, invece di sedermi e aspettare che la ragazza mi portasse il cibo, come facevo sempre tornando dal lavoro, aiuto anche io e, dopo pranzo, invece di mettermi a leggere il giornale, gioco con la mia bambina o faccio qualche lavoretto. Anche per Severin l’impegno per il dialogo è una cosa seria. Sono meccanico e la mia officina era frequentata da clienti di varie fedi. I vicini musulmani però non erano troppo felici che fosse così, e cercavano di intimorirmi. Ma io rispondevo sempre con serenità. Ad un certo punto però mi sono accorto che ciò causava tensione ai miei clienti. Ho deciso di chiudere l’officina in quel quartiere, fidandomi di Dio, che avrebbe pensato a trovare per me qualcos’altro. Mi sento felice e trovo la vita più bella, da quando ho cominciato ad amare per primo, senza aspettare di essere amato. Lasciando in battello il porto di Zanzibar, non riesco a cancellare i volti sorridenti dei miei nuovi amici, e mi viene da pensare a loro quasi come a primi cristiani del XXI secolo. Un piccolo paradiso Alfred e Dorothea, Richard, Silvestre, Elie, Nazaire sono burundesi e sono arrivati a Dar Es Salaam dopo tre giorni di treno dal campo profughi di Mtabila, nella regione di Kigoma, ad est del paese. Avrei voluto andare a trovarli io, ma ottenere i permessi è molto difficile. Neanche per loro è stata una passeggiata: dopo aver tremato a lungo per il permesso di uscita, dovevano trovare qualcuno che li accompagnasse. Dopo mille peripezie, poco prima che il treno partisse (non ce ne sono treni tutti i giorni) è saltata fuori una suora che si è fatta garante presso le autorità di polizia per accompagnare i nostri e riportarli poi nei campi. E così dopo molto tempo Alfred e gli altri hanno potuto partecipare a una incontro del movimento. Tutti avevano conosciuto il focolare in Burundi, da dove sono dovuti fuggire ed ora si trovano nei campi da dieci anni. Sono ora circa 600 gli aderenti, distribuiti in sei campi profughi nella regione di Kigoma, senza però poter mai avere contatti fra loro. Ero un ragazzo quando ho lasciato il mio paese – afferma Alfred, che ormai parla bene lo swahili e fa l’insegnante nella scuola secondaria del campo – ora mi sono sposato, ma se ritorno non ho niente in Burundi. Parliamo dei progetti che si vogliono portare avanti a Mtabila, col concorso dei Giovani per un mondo unito. Prima di tutto il sostegno scolastico. La scuola primaria è tenuta dall’Unicef, che garantisce ai maestri uno stipendio mensile di 17 mila scellini tanzaniani, pari a 13 euro. Gli 800 studenti delle secondarie sono invece organizzati in tre scuole (il campo di Mtabila conta 60 mila abitanti) dagli stessi insegnanti profughi, che da anni lavorano gratis. Abitiamo in capanne fatte di paglia e fango, così come le scuole e le cinque chiese, di vari riti, che ci sono nel campo. Facciamo di tutto per assicurare l’istruzione ai nostri ragazzi, dei quali molti, a 17 anni, frequentano ancora la scuola elementare, avendola abbandonata per la fuga. Ora con nemmeno quattro euro al mese, potremmo garantire ad ogni studente la retta scolastica, la divisa e il materiale, oltre ad un po’ di cherosene. Con i fondi raccolti dai Giovani per un mondo unito, possiamo dare questo sostegno intanto a cinquanta ragazzi ed integrare in più lo stipendio di sette insegnanti. Nel frattempo alcuni giovani di Milano si sono impegnati a sostenere gli studi universitari di uno dei nostri amici, il che vuol dire mille euro annue. Un altro grosso problema nei campi è l’inattività. I nostri amici hanno pensato di coltivare un orto, che occuperebbe cinque persone; la produzione di farina di manioca, con l’impiego di 15 donne. Si pensa anche ad una sartoria e ad una panetteria. Costatiamo che abbiamo i fondi per avviare due di queste attività, e mentre scrivo l’orto è ormai ben funzionante e così la fabbrica di manioca. Mentre a tavolino facciamo tutti questi progetti e Alfred con un grande sorriso presenta un preventivo perfetto, non posso non pensare alle storie tragiche che stanno dietro ad ognuno di loro, arrivati in Tanzania spesso dopo viaggi allucinanti e con solo quello che avevano indosso. Ora nei campi operano, oltre all’Unhcr, diverse Ong che assicurano un minimo di sopravvivenza. Vengono distribuiti riso, fagioli e farina di manioca, ma pochi hanno gli utensili necessari per cucinare. E sono centinaia di migliaia le persone che vivono così. Di fronte a ciò, mi sembra un niente quello che stiamo facendo, e lo confesso ad Alfred. No, non è una piccola cosa – mi risponde -, perché è il frutto dell’amore fra noi. Vogliamo fare qualcosa per migliorare la nostra situazione, ma anche testimoniamo che è possibile la condivisione tra popoli, etnie e religioni diverse. E ciò salva dal semplice assistenzialismo. ZANZIBAR Si trova di fronte alla costa della Tanzania. Ad abitarla per primi furono i bantu. Attorno al primo millennio d.C., popolazioni sciite provenienti dalla Persia conquistarono l’isola. In seguito arabi e cinesi, mercanti per eccellenza, si spinsero in queste aree costiere attratti dal commercio dell’avorio, spezie e schiavi. Verso il 1.500, i portoghesi che avevano colonizzato il Mozambico capitanati da Vasco de Gama, incominciarono ad affacciarsi sulla costa della Tanzania e della parte meridionale della penisola arabica con intenti di conquista. Dopo numerosi eccidi vennero respinti, e tutta la costa fu di nuovo sotto dominio arabo. Zanzibar, eletta capitale del regno dell’Oman, divenne sede del sultano. Il commercio di avorio e di schiavi catturati sulla terra ferma, raggiunse la sua massima intensità. Nel 1861 la Gran Bretagna intervenne nella lotta per l’indipendenza di Zanzibar dall’Oman, e nel 1890 dichiarò l’isola protettorato britannico. Ma già in precedenza gli inglesi avevano costretto il sultano a cessare il commercio degli schiavi, che continuò clandestinamente fino al 1873. Nella cattedrale di Stone Town, costruita dove sorgeva il vecchio mercato degli schiavi, sono stati rispettati dei simbolismi molto significativi: l’altare sorge nel punto in cui c’era il palo dove gli schiavi venivano frustati ed una delle vetrate ricorda i marinai inglesi morti durante pattugliamenti antischiavitù. Con la nascita del nazionalismo arabo furono intraprese lotte organizzate dal movimento anticolonialista, e nel gennaio del 1964 venne spodestato l’ultimo sultano proclamando la repubblica. Zanzibar, nell’aprile dello stesso anno, si unì al Tanganica. A tale nazione venne dato il nome di Tanzania. Attualmente Zanzibar è la più grande produttrice di chiodi di garofano al mondo (80 per cento della produzione mondiale). La fragrante, come veniva chiamata, è ricca di piantagioni di spezie di ogni tipo e di caffè.

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