Identità in Eurasia: separatismo o decolonizzazione?

Il conflitto russo-ucraino ha riportato al centro della riflessione occidentale la questione dei processi imperialistici e colonizzatori della Russia e, allo stesso tempo, il dibattito che questa guerra, dove la propaganda gioca un ruolo fondamentale da entrambe le parti, ha suscitato sulla questione della decolonizzazione della Federazione sovietica e russa.

Un recente dossier, pubblicato dall’Istituto per gli Studi di Politica internazionale (Ispi – www.ispionline.it) è stato dedicato alla questione della decolonizzazione russa, con particolare riferimento agli stati caucasici e dell’Asia centrale che hanno vissuto, o ancora vivono, nell’orbita sovietica. Si tratta di un nodo che coinvolge direttamente l’attuale conflitto con l’Ucraina che, da tempo, aveva iniziato una presa di distanza da Mosca ed aveva messo, sia pure con grande fatica, le basi per una decolonizzazione dalla grande Russia.

Il problema della decolonizzazione è sentito sia da Paesi che hanno acquisito l’indipendenza dopo il crollo dell’Urss (comprese Ucraina e Kazakhstan) ma anche da territori che si trovano ancora all’interno dell’attuale Russia, come Buryatia o Bashkortostan e Tatarstan.

Ovviamente, il termine “decolonizzazione” è assai delicato: nella propaganda di Mosca e nei testi scolastici, “colonizzazione”, con le sue varie derivazioni e sfumature, è sempre stato usato solo per l’atteggiamento culturale, politico e militare dell’occidente. L’Urss e anche la Russia, successivamente, si sono spesso fatte paladine di Paesi colonizzati sia dagli Usa che dall’Europa.

Tuttavia, non si può negare che sia vero anche il contrario. Per decenni, infatti, il potere sovietico sull’Asia centrale non si è limitato ad una influenza sul contesto politico ed economico, ma ha profondamente coinvolto anche quello culturale e linguistico. Un esempio significativo è quello del Kazakhstan dove oggi da più parti ci si lamenta di aver perso la vera identità kazakha.

Generazioni sono cresciute imparando e parlando russo a spese della lingua locale che veniva insegnata solo in alcune ore (spesso solo due) nei programmi scolastici settimanali. Inoltre, la propaganda metteva in risalto come la presenza russa fosse un contributo generoso di civiltà e modernità. Decenni di una tale politica coloniale hanno portato molti kazakhi non solo a non apprezzare la propria cultura, ma a disprezzarla, processo che ha causato seri problemi di identità culturale e sociale.

Attualmente esistono varie organizzazioni che reclamano la necessità e l’urgenza di processi di decolonizzazione. Fra questi, la Free Nations League (Fnl) si sta orientando a rivendicare la divisione del territorio dell’attuale Russia in trentaquattro regioni indipendenti in modo da garantire una certa autonomia economica e politica, ma soprattutto culturale, dalla Federazione Russa. Ovviamente, i processi secessionisti risultano sospetti e pericolosi e potrebbero anche non giovare ai vari stati dell’Asia centrale che si trovano ancora all’interno della Federazione. Tuttavia, un lento e progressivo processo di de-federalismo potrebbe risultare utile ed avviare ad un futuro migliore queste etnie, culture e regioni.

Anche il Tatarstan si trova nella morsa fra una potenziale secessione e il crescente controllo del governo di Mosca, che tende a proibire qualsiasi forma di attivismo nazionalista. Anche all’interno di questo stato, infatti, c’è la paura di una inarrestabile assimilazione alla cultura russa. La lingua locale conosce una fase di declino, oltre a non essere mai usata a livello ufficiale e amministrativo, e dal 2017 non è più obbligatoria nelle scuole.

Attualmente, essendo una delle aree più ricche e prospere del Paese, il Tatarstan è profondamente assorbito nella rete economica, commerciale e infrastrutturale della Federazione Russa. Tentare la via della secessione porrebbe serie conseguenze, sia di tensioni con il governo di Mosca, che non permetterebbe un processo di questo tipo, ma anche, una volta divenuti eventualmente indipendenti, di mera sopravvivenza.

Per quanto riguarda il primo punto, “decolonizzazione” suonerebbe alle orecchie del potere di Mosca come separatismo, atteggiamento mai tollerato come insegna la storia recentissima disegnata da Putin, che lo identifica come un attacco alla sicurezza nazionale.

Inoltre, e qui veniamo alla seconda questione, separarsi da Mosca metterebbe questi stati in pericolo per quanto riguarda la loro sopravvivenza. Oltre a prendere le distanze dal grande fratello russo, infatti, questi stati avrebbero bisogno di partner sicuri sia a livello economico che politico. E l’unico Paese di riferimento potrebbe essere la Turchia, la cui cultura ha ancora una forte influenza in molti stati e territori caucasici.

I processi di decolonizzazione all’interno della Russia, se devono avvenire, non verranno mai dall’alto, ma necessariamente dal basso. A complicare ulteriormente questi processi c’è spesso il fattore religioso. La maggioranza delle popolazioni della zona asiatica della Federazione Russa è, infatti, musulmana.

Una situazione, dunque, assai complessa che la Russia si trova a gestire non solo all’esterno – e la guerra contro l’Ucraina ne è l’evidenza più lampante – ma anche all’interno, dove non mancano spinte secessioniste e rivendicazioni per processi di de-federalismo e de-colonizzazione.

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