Identità e lavoro

In questi giorni stiamo assistendo a discussioni sul lavoro che, a tratti, risultano paradossali. Da una parte c’è chi reagisce (penso ai sindacati) alle minacce di riforma del mercato del lavoro provenienti dal governo, che fanno intravedere allungamenti dell’età lavorativa. Dall’altra, in agosto sono state rese note alcune ricerche (Financial Times) dalle quali risulta che la maggior parte gli europei, se potessero, vorrebbero lavorare più ore alla settimana. Come sta evolvendo allora il lavoro nell’età della globalizzazione? In realtà l’apparente contraddizione è presto risolta. Se sono un lavoratore metalmeccanico o un operaio di una impresa di pulizie, è probabile che veda il non-lavoro e la pensione come liberazione da un’attività cui mi sottopongo primariamente (anche se non solo) per ottenere un reddito con cui mandare avanti me stesso e la mia famiglia. Quando i sindacati si preoccupano di un allungamento dell’età lavorativa è soprattutto questo tipo di lavoratore che hanno in mente. Se, invece, faccio il manager il professore universitario o l’imprenditore sociale, è probabile che il lavoro non sia un male necessario. Esso spesso diventa un’espressione della mia personalità, parte della mia realizzazione. Il lavoro da male diventa bene. Con quali conseguenze? Che tendiamo a lavorare troppo e a vedere, paradossalmente, il tempo libero come un problema. Un’altra statistica di questi giorni dice infatti che per le donne americane in carriera il momento più triste della settimana è il week-end. Se, infatti, traiamo soddisfazione e identità dal lavoro, può accadere che il tempo del lavoro occupi via via tutta la vita, e non riusciamo più a distinguere lavoro e tempo libero, il collega dall’amico, l’ufficio dalla casa. Le nuove tecnologie favoriscono tremendamente questa promiscuità. E dov’è il problema? qualcuno potrebbe chiedersi. Il trucco infatti non è sempre evidente. Per trovarlo occorre guardare bene nella vita di questi lavoratori, e accorgersi che si verificano due fenomeni preoccupanti: il momento della pensione diventa un dramma (chi sono ora?), e si riduce sempre più il tempo per gli altri. Se la vita diventa solo lavoro, fosse anche un lavoro per cause nobili e spirituali (come ha recentemente ricordato papa Benedetto XVI), si può infatti ridurre lo spazio per il dono, e quindi per la vita. Il lavoro va certamente arricchito e reso un luogo sempre più umano.Ma anche una volta umanizzato il lavoro, occorre ricordare a noi stessi che la vita, nostra e degli altri, è più grande del lavoro che svolgiamo, e che la nostra identità non può e non deve esaurirsi con una professione o con un mestiere.

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