I sindacati si aprono al mondo

Sempre più immigrati si impegnano per la tutela non solo degli altri stranieri ma di tutti i lavoratori, ricoprendo anche incarichi dirigenziali. Quattro storie da quattro angoli di mondo
Immigrati

«Abbiamo un mondo del lavoro che parla sempre più straniero: il sindacato deve prenderne atto e aprirsi a questo cambiamento». Sembra filare il ragionamento di Abdou Faye, eletto segretario provinciale della Filcams-Cgil di Udine con il 75 per cento dei voti lo scorso aprile: secondo i dati Istat, i lavoratori immigrati in Italia sono quasi tre milioni (un decimo della forza lavoro), e le imprese con titolare straniero circa 230 mila. Nulla di cui meravigliarsi dunque se si impegnano anche in ambito sindacale, arrivando a posti dirigenziali persino in quel profondo Nord-Est famoso per la sua diffidenza verso chi non parla il dialetto locale: i cittadini stranieri iscritti alla Cgil nel 2011 erano 410 mila (l'8,8 per cento dei tesserati totali), e 386 mila quelli iscritti alla Cisl (l'8,6 per cento). «Eppure – prosegue Faye – c'è ancora molta strada da fare sul fronte della rappresentanza, per quanto qualcosa si stia muovendo». Faye, arrivato in Italia nel 1989, è entrato nella Cgil già l'anno successivo: una scelta naturale, dato che ad occuparsi di immigrati in quegli anni «erano solo alcune associazioni e i sindacati». Dal 1995 ha iniziato a ricoprire ruoli interni di ogni genere a livello sia provinciale che regionale; nel 2008 l'ingresso nel direttivo nazionale, in rappresentanza della sua regione. Certo, le resistenze iniziali ad accogliere un immigrato ci sono state, «ma le difficoltà vere nascono solo se la persona non fa bene il suo lavoro – osserva Faye –. La gente ha bisogno di fiducia e di strumenti culturali, e il fatto che persone da altri Paesi ricoprano ruoli dirigenziali, non solo per gli altri immigrati, è molto positivo. Io mi sento un sindacalista “completo”, per tutti, al di là del colore della pelle».
 
Ma non c'è solo il Friuli, che secondo il Cnel è la prima regione italiana per integrazione socio-lavorativa degli immigrati: scendendo lungo la penisola troviamo l'Umbria, dove presidente delle Acli di Perugia è l'indiano Ladis Kumar. Eletto all'unanimità lo scorso aprile, al sindacato è arrivato per caso: «Dopo la laurea in filosofia in India – racconta – nel 1993 ero arrivato a Roma per studiare teologia, ma coltivavo anche la passione dell'informatica: e come informatico ho trovato lavoro alla sede nazionale delle Acli, nel 1999». Trasferitosi nel 2007 nel capoluogo umbro, ha continuato  il rapporto con il sindacato fino a diventarne il primo presidente provinciale non italiano. «Non mi sono mai sentito uno straniero – puntualizza – ma un “cittadino del mondo”, mettendomi in gioco senza preconcetti. In un mondo che si sta restringendo, non possiamo più ragionare per nazionalità».
 
Prova ne è il fatto che alcuni immigrati sono arrivati anche nelle sedi nazionali dei sindacati. È il caso del marocchino Moulay El Akkioui, laureato in biologia animale, giunto in Italia nel 1989. Dopo varie peregrinazioni nella Penisola, adattandosi a fare i lavori più disparati, è arrivato a La Spezia, dove nel 1991 è iniziata la sua esperienza in Cgil: «Il sindacato ce l'ho nel dna – afferma – perché mio padre aveva portato avanti l'attività sindacale clandestina sui Monti dell'Atlante. Per cui mi è venuto naturale». Ha così fondato il coordinamento locale per gli immigrati impegnandosi soprattutto nell'edilizia, essendo lì impiegata la maggioranza degli stranieri; nel 1996 è stato eletto segretario generale della Fillea spezzina, fino ad arrivare alla segreteria nazionale nel 2006. «Ringrazio i miei colleghi – afferma – perché non è stato facile, all'inizio, cogliere le dinamiche sociali, politiche e culturali diverse. Ma l'importante è essere consapevoli di quello che siamo». Il suo percorso di studi gli è valso la delega alla green economy: «Credo che come sindacalisti dobbiamo indirizzare la contrattazione verso la sostenibilità – afferma convinto – in particolare nel settore edilizio: la Terra non può più sopportare un consumo di suolo come quello attuale, è necessario limitare la cementificazione. C'è gente che ha la terza o quarta casa, mentre altri non hanno nulla».
 
E dall'avere praticamente nulla all'ingresso in Italia vent'anni fa è partita la peruviana Liliana Ocmin, segretario confederale del Dipartimento politiche migratorie, donne e giovani della Cisl dal 2007. Arrivata a Roma da irregolare, inizialmente ha fatto la colf nonostante la laurea in giurisprudenza; il suo desiderio, raggiunto nonostante l'opposizione dei suoi datori di lavoro, era però frequentare un corso di specializzazione all'università. Lì ha conosciuto il sindacato tramite l'Anolf, che l'ha aiutata a fondare il coordinamento degli studenti stranieri de La Sapienza, ed ha iniziato a lavorare per la Cisl. Una scelta «nata dal mio vissuto di clandestina, lavoratrice, desiderosa di coronare i miei sogni in un mondo che trovavo ingiusto soprattutto verso le donne e gli immigrati». Come Kumar, «non ho però mai ragionato come immigrata, ma semplicemente come persona». A dare una svolta a questo impegno è stato l'arrivo dei figli: «Da mamma cambia tutto – afferma – perché la prospettiva diventa quella di doversi dividere tra gli affetti e la carriera. Ringrazio mio marito che si è messo in gioco, ed ha sempre condiviso le responsabilità nel quotidiano». Di qui la sua sensibilità verso le sfide delle pari opportunità e dell'occupazione femminile «soprattutto per il riconoscimento dei “lavori bianchi”, come l'assistenza agli anziani. Sarebbe una svolta per l'occupazione femminile, soprattutto al Sud».
 
Nell'esperienza di tutti gli intervistati, la presenza di persone di origine straniera è un valore aggiunto all'interno del sindacato: oltre a portare una sensibilità ed un modo di lavorare diversi e stimolare una maggiore consapevolezza, «chi viene da un Paese povero – osserva la Ocmin – è per forza cresciuto in un mondo in cui i legami non sono fondati sul consumismo: e questo aiuta a riportare al centro quei valori fondamentali per la coesione sociale e la democrazia, accantonati dall'individualismo». Anche El Akkioui conferma che «chi ha fatto un percorso disagiato, con la massima modestia, può portare un contributo notevole: ci sono sindacalisti che invece non hanno mai lavorato». Senza contare che, proprio perché il mondo del lavoro vede una presenza sempre maggiore di immigrati, «c'è bisogno di funzionari sindacali che li tutelino adeguatamente: se non conosci in prima persona i loro problemi, non puoi far valere le loro esigenze nella contrattazione» aggiunge Faye.
 
Certo non mancano i punti critici: «Tutti parlano di uguaglianza, ma poi fanno difficoltà a dare un incarico a uno straniero» fa notare Kumar. E anche quando l'incarico arriva, per quanto il suo lavoro venga valorizzato, «quando un immigrato sbaglia, sbaglia cento volte», osserva El Akkioui. Senza contare che «molti lavori sono tuttora considerati “solo per donne” o “solo per stranieri” – afferma la Ocmin -: ma così facendo, perpetuiamo un grave errore».

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