I simboli delle feste

Babbo Natale e san Nicola, l’albero e il vero significato del dono della nascita di Gesù.
Albero di Natale di Lansing nel Michigan

«Tu eri lui!». “Tu” sarei io; “lui” sarebbe Babbo Natale. È quanto esclamato da mia figlia Sofia di cinque anni quando, osservando attentamente il Babbo Natale che aveva di fronte, mi ha riconosciuto dagli occhi cerulei. Ogni anno la pantomima era riuscita. Manovre di distrazione di massa durante la cena di Natale operate dall’agente speciale: mia moglie. Io che corro in camera da letto, mi travesto da Babbo Natale in fretta e furia ed esco sul balcone gelato. Busso alla porta del salotto e il gioco è fatto. Il travestimento è a norma: giubba rossa con i bordi di pelliccia bianca, barba bianca e folta, sacco nero con i regali. L’esame preliminare, come di consueto, è per verificare quanto siano stati buoni o cattivi e il regalo è garantito.

 

Tutto, dunque, aveva sempre funzionato a dovere, ma non l’anno scorso. Un dubbio si è insinuato nella mente di mia figlia. Gira voce sia stato il passaparola carbonaro dei compagni di scuola che, tramite il fratello maggiore, abbia rivelato la notizia: «Babbo Natale non esiste!». Del resto le renne che volano, la casa in Lapponia, la consegna simultanea dei regali in tutte le case del mondo suscitano delle perplessità anche nel mondo magico dell’infanzia, per il simbolo per eccellenza del Natale.

 

Ma se Babbo Natale non esiste chi lo ha inventato? Secondo lo scrittore Nicola Lagioia, Babbo Natale sarebbe un’invenzione della Coca Cola. Ma può la fantasia di un pubblicitario arrivare a tanto? Non può. La storia che segue è vietata ai minori di anni otto e ai bambini di ogni età che non vogliano chiudere i cancelli con l’infanzia.

 

Anche nel 1931 l’economia mondiale navigava in acque agitate. Crisi di liquidità delle banche, 14 milioni di disoccupati solo negli Stati Uniti, crollo di industrie che sembravano inaffondabili, agricoltori sul lastrico. In questo contesto la Coca Cola ridisegnò la figura di Babbo Natale a proprio uso e consumo, cancellando «dai propri messaggi qualunque sfumatura aggressiva o consolatoria», per focalizzare l’attenzione su «l’illusione di un mondo sospeso in cui una tiepida ma infinita gioia di vivere occupasse ogni spazio disponibile».

 

La Coca Cola, inoltre, per la prima volta si affaccia sulla grande distribuzione e può essere acquistata in confezione da sei bottiglie nei supermercati. Di conseguenza occorreva interessare chi orientava gli acquisti: i figli. Occorreva educare al consumo.

Dapprima con la sponsorizzazione dei programmi scolastici, mentre la campagna pubblicitaria vera e propria fu affidata a due grandi esperti come Archie Lee e Haddon Sundblom che dovevano evitare di rivolgersi direttamente ai bambini, perché la Coca Cola contiene caffeina. «L’espediente – scrive Nicola Lagioia nel libro Babbo Natale (Fazi) – fu quello di arruolare un messaggero, un tramite, un intermediario tra infanzia e mondo degli adulti che fosse in grado di catalizzare, con la sua semplice presenza, l’immaginazione e i desideri dei bambini».

 

Il Babbo Natale creato fece convivere l’aura di essere soprannaturale con l’estetica dell’uomo comune. Il grafico pubblicitario Sundblom lavorò su un Babbo Natale del 1862 dandogli le sembianze del suo vicino di casa, un commesso viaggiatore. «Per far sognare la gente – spiega Lagioia – nel modo più sereno e rassicurante possibile bisognava pescare in una fondamentale intersezione tra realtà e mondo immaginario, vale a dire nell’ideale, perennemente in fieri, che una cultura ha di sé stessa».

 

Eppure la storia racconta che la leggenda di Babbo Natale arrivò sulle coste americane sin dalle origini, perché l’isola di Manhattan era olandese, prima di essere ceduta agli inglesi. E olandese è la tradizione del Sinterklass: un vescovo, vestito di rosso, con la barba bianca che si cala dai camini per portare i doni ai bambini. Sinterklass significa san Nicola e a lui fu dedicata una delle prime chiese di Manhattan nel 1642. L’originale era, dunque, san Nicola poi evolutosi nei vari Sinterklass, santa Claus e, passando per la fantasia letteraria dello scrittore Washington Irving nel 1809 e di Clemente Clark Moore nel 1822, a Babbo Natale come è da noi conosciuto.

 

San Nicola, vescovo di Mira in Turchia, morto nel IV secolo, è, insomma, il vero Babbo Natale e la sua fama è stata sempre vasta, sia in Oriente che in Occidente, tranne che nel periodo della Riforma in Germania. Nel 1087, sessantadue marinai ne trafugarono le spoglie e le portarono in Puglia. San Nicola, ora di Bari, è conosciuto per l’episodio dei doni ripetuti, tre sacche piene d’oro, calate dalla finestra, dentro la casa di un uomo per evitare di avviare le sue tre figlie alla prostituzione. È la logica del dono gratuito e segreto secondo i dettami evangelici. La gratuità senza ricompense, l’amore disinteressato a fin di bene, «dalla larghezza – scrive Dante nel Purgatorio – che fece Niccolao alle pulcelle, per condurre ad onor lor giovinezza». Che sconcertante attualità e segno di contraddizione.

 

Altro grande simbolo del Natale è l’albero, già presente in molte tradizioni culturali: negli antichi popoli germanici, nei celti, in India. Nell’antica Roma, nel periodo prima del solstizio d’inverno, si celebravano i Saturnalia, in onore del dio Saturno, dal 17 al 24 dicembre, cioè alla vigilia del Natalis Solis, del Natale del Sole, in cui i romani usavano portare in giro un giovane abete augurale.

«L’albero di Natale – spiega Gabriella Marucci, antropologa – è un simbolo archetipo che rappresenta l’albero cosmico, l’albero della vita presente in quasi tutte le mitologie. Le luci che lo adornano e le luminarie della città riempiono il buio nel periodo dell’anno in cui si vede meno il sole».

 

Nell’albero di Natale troviamo la presentazione di vari simboli. È sempreverde come l’abete, perché richiama la vita che non passa e non conosce tramonto. Le lucine elettriche, originariamente le scintille dei falò nei ceppi che bruciano e poi le candele, indicano la luce del mondo, Gesù, che squarcia il buio e illumina tutti gli uomini. Secondo un racconto tedesco, tratto da Tutto sul Natale (Città Nuova), un uomo, tornando a casa alla vigilia di Natale, «fu colpito dal meraviglioso spettacolo delle stelle che brillavano attraverso i rami di un abete; lo portò a casa, lo ornò di candeline accese e lo posò sul tavolo. Le candeline assomigliavano proprio alle stelle che aveva visto tra i rami nel bosco. Altri videro l’albero illuminato, e così si diffuse l’usanza dell’albero di Natale».

Aurelio Molè

  

Natale è

 

Mons. Giuseppe Petrocchi, vescovo di Latina, è autore del libro Diventare se stessi pubblicato da Città Nuova, una serie di discorsi sul Natale.

 

Anche nelle feste siamo inondati da simboli del consumo; qual è il fascino del Natale?

«Il fascino del Natale è quello del Figlio di Dio fatto uomo che è venuto ad abitare in mezzo a noi. È lui che ci viene a cercare. Non siamo noi a muoverci per primi verso di lui, ma sta a noi lasciarci trovare».

 

Perché l’incarnazione è un evento di comunione?

«È una scelta consumata nel seno della Trinità, dove il Padre ha deciso di inviare il Figlio, totalmente consenziente per mezzo dello Spirito. L’iniziativa è trinitaria e nel segno della comunione».

 

Lo è anche nel versante umano?

«La storia del Natale è sempre descritta al plurale nei Vangeli. Il mistero della nascita di Gesù si attua in una famiglia, il nucleo “comunionale” per definizione. Gli angeli sono presentati al plurale così come il gruppo dei pastori. Dopo sono introdotti i magi, pure loro comunità di tre, rappresentanti di tutti coloro che cercano Dio. Tutti i personaggi si muovono insieme, in uno spazio di unità, ed è per questo che incontrano Dio fattosi uomo. Chi non si mette in comunione non intercetta nel profondo l’evento del Natale, che è l’incontro con Dio che si fa trovare e ci rende capaci di amare con il suo stesso amore».

 

Cosa significa diventare sé stessi?

«Il Natale non è una rievocazione del passato, ma ci richiama a rivivere nell’oggi il mistero dell’amore di Dio che ci conduce a sé e al centro di noi stessi. Diventare sé stessi, allora, significa attuare quel progetto che è scritto nel nostro essere: solo così possiamo realizzarci pienamente. Ma abbiamo la possibilità di diventare altro rispetto alla nostra struttura identitaria. Questa negazione interiore ci fa diventare inquilini scomodi di noi stessi: rischiamo di non abitarci bene, sperimentando un malessere interiore perché non ci troviamo in consonanza con ciò che profondamente siamo».

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