I princìpi e la radice

Si parla di religione in vari punti del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa e se ne parla sotto diversi aspetti. Anzitutto, dal punto di vista della tutela dei diritti individuali, nell’articolo II- 10, che stabilisce il “diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”; e nel II-21, che vieta ogni forma di discriminazione, e dunque anche quella su base religiosa. In un altro importante articolo, l’Unione europea afferma di rispettare “lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli stati membri”: rispetta, cioè, i diversi “concordati” che alcuni paesi – è il caso dell’Italia – hanno sottoscritto con la Santa Sede e con altre comunità religiose. Ha suscitato notevoli reazioni, però, il fatto che un analogo rispetto venga assicurato anche per lo status “delle organizzazioni filosofiche e non confessionali”. Certamente tali organizzazioni devono essere rispettate, ma le reazioni sono dovute al fatto che esse vengono equiparate alle grandi religioni. Un’equiparazione che può avere un senso dal punto di vista della libertà riconosciuta alle scelte individuali; ma se una persona ha uguale diritto, nelle feste comandate, di recarsi ad una funzione religiosa come al circolo della caccia, l’istituzione politica non può dare la stessa valutazione alle due organizzazioni: mettendo insieme le grandi religioni, che hanno avuto un ruolo decisivo nella storia e nella costruzione dell’Europa e che continuano a dare un rilevante contributo alla vita collettiva, con organizzazioni di diversa natura, si compie non solo un falso storico, ma una pesante distorsione della realtà attuale. L’identità difficile Il Preambolo, infine, contiene una delle affermazioni più importanti sulla religione: importante sia per quello che dice, sia per quello che omette. Si afferma che l’Unione europea si ispira “alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, i cui valori sono sempre presenti nel suo patrimonio, che hanno ancorato nella vita della società la sua percezione del ruolo centrale della persona, dei suoi diritti inviolabili e inalienabili e del rispetto del diritto…”; si riconosce, sia pure in maniera generica, il contributo che le religioni hanno portato a livello culturale e giuridico, in particolare nella formulazione del principio personalista. Ma lo si fa in maniera sfumata e asettica, in tono con l’atteggiamento sgusciante col quale il Preambolo evita di spiegare le radici religiose e culturali dei princìpi che dichiara; princìpi che oggi trovano espressione nel diritto delle società democratiche, ma che sono emersi faticosamente attraverso una storia millenaria che ne ha visto, spesso, una inseminazione in ambito religioso, e una crescita attraverso gli innumerevoli esperimenti della storia, attraverso i quali le stesse religioni sono diventate coscienti del proprio patrimonio. L'”umanesimo” di cui si parla è vago e astratto; i princìpi sono enunciati in modo da non trasmettere lo spessore dei loro contenuti. Il Preambolo manifesta una notevole difficoltà nel definire l’identità dell’Unione, nel dichiarare chi sono gli europei. E questa è una patologia culturale gravida di conseguenze. Infatti, se non c’è identità culturale, non c’è neppure vera soggettività politica: l’Unione si ridurrebbe ad un’area di libero scambio, il suo ruolo nel contesto internazionale rimarrebbe sempre subordinato a quello di coloro i quali, avendo identità marcate, sono in grado di compiere scelte precise e di realizzarle. Eppure, questa Costituzione, pur nel faticoso intreccio delle norme e delle cautele, fa emergere almeno in parte l’identità di una civiltà. Lo si vede con chiarezza, ad esempio, nell’articolo I-3, che definisce gli obiettivi dell’Unione: vi si dice esplicitamente che essa, nelle relazioni col resto del mondo, “afferma e promuove i suoi valori e i suoi interessi”. Ma di seguito, esprimendo le azioni attraverso le quali tali valori e interessi vengono perseguiti, si spiega che l’Unione “contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti dei minori”; e collega la propria azione “alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto della carta delle Nazione Unite “: in tal modo, l’Unione fa coincidere i propri interessi e valori con la promozione del bene anche degli altri soggetti, specialmente dei più deboli; e collega il proprio processo di unificazione e il proprio benessere a quello di una integrazione politica e di un benessere mondiali. Sono dichiarazioni di grande importanza, che, da una parte, dimostrano che effettivamente l’ebraismo e il cristianesimo, le due grandi religioni che, dall’interno, hanno contribuito a costruire l’Europa, abbiano trasmesso alcuni dei propri fondamentali contenuti a questa civiltà; dall’altra, in quelle dichiarazioni la nuova Costituzione sembra raccogliere quello che potremmo chiamare lo “spirito dell’Europa”: la sua originaria e radicale dialogicità, la convinzione che attraverso il rapporto con l’altro sia possibile raggiungere la verità. Troviamo questa logica del dialogo nei momenti più alti e fondamentali delle diverse culture che hanno forgiato l’Europa: dal dialogo fra Dio e uomo nella Bibbia, al dialogo delle scuole rabbiniche che l’hanno commentata; dalla filosofia come Socrate l’ha concepita, alle grandi dispute nelle università medievali. Se è vero che è stato il cristianesimo a portare a maturazione, con l’idea di persona, questa consapevolezza che l’altro mi è essenziale, che io sono me stesso solo nel rapporto con lui, bisogna dire che tutti gli altri grandi filoni culturali che hanno costruito l’Europa, hanno portato contributi a questo patrimonio. Così l’Europa si è ingrandita, non per annessione di altre terre e altri popoli, ma attraverso una inclusione che trasformava coloro che già si sentivano europei e coloro che, modificandosi a loro volta, vi si aggiungevano; dalla piccola Europa dei tempi di Erodoto, che coincideva con la Grecia e le sue colonie, fino ad oggi, ad ogni passaggio d’epoca ritroviamo la stessa situazione: ciò che, ad un dato momento, si pensava essere Europa, risultava troppo piccolo, si trovava alle prese con qualcosa di diverso che lo metteva in scacco, e che sfidava l’Europa a comprenderlo, a prenderlo dentro modificandolo e modificandosi. Europa è sempre stata confronto, convivenza di diversi, equilibrio continuamente ricercato tra nazionalità e culture che, pur riconoscendo gli elementi comuni tra loro, hanno sempre rifiutato di annullarsi, hanno sempre affermato la loro identità: l’Europa non sopporta unificazioni che distruggano le particolarità. Ma già Erodoto aveva dato la chiave con la quale anche oggi possiamo guardare alla Costituzione che ci viene proposta: per distinguere gli europei dagli altri, osservava: “quella gente non ha costruito né mura né città”(1). La nota fondamentale che distingue gli europei è dunque di carattere politico: sono cittadini liberi che partecipano alla vita pubblica, e sanno vivere insieme sotto la legge, anziché come sudditi di un tiranno(2). Da Erodoto in poi l’idea di Europa si è sempre associata a quella di libertà, di partecipazione politica, di potere limitato e condiviso. Non c’è Europa dove sussiste la tirannia. E questo spiega perché i diversi pensatori nelle diverse epoche diano all’Europa estensioni diverse, a seconda di ciò che essi, in base alle condizioni politiche e culturali del loro tempo, giudicano rientrare nell’idea di Europa. L’Europa non è dunque un fatto geografico, i cui confini rimangono incerti, ma è una realtà politica, sociale, culturale, religiosa. Per questo, mi sembra, è importante dichiarare esplicitamente la paternità e la maternità anche reliose della nostra cultura, intraprendendo anche oggi quel dialogo vero che è il frutto più tipico della nostra tradizione.

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