I nostri connazionali stranieri

Anno europeo del dialogo interculturale. Così è stato dichiarato il 2008 dall’Unione europea. Un auspicio secondo alcuni, solo un’illusione secondo altri. Senza dubbio una necessità. Perché se qualcuno si sta ancora chiedendo come bloccare i flussi di popolazione che continuano a spostare gente da una parte all’altra del pianeta o dello stesso vecchio continente, qualcun altro si interroga anche su come fare perché la mescolanza dei popoli, che oramai è un dato di fatto, possa generare una società non solo multiculturale bensì interculturale. È di queste settimane la presentazione del XVII Dossier statistico immigrazione prodotto da Caritas- Migrantes: un rapporto serio, documentato (oltre 500 pagine), ricco di elaborazioni su dati Istat, Inail, Cnel e quant’altro. Cosa ci dice? Tante cose (vedi www.caritasitaliana. it), fra cui il fatto che la popolazione straniera regolarmente soggiornante in Italia è di 3 milioni e 700 mila persone (dato che ci colloca ai vertici in Europea insieme alla Spagna, subito dopo la Germania); che un quarto degli immigrati (900 mila persone) viene dall’Unione europea; che di questi il gruppo più numeroso, con 500 mila presenze, è quello rumeno. Ed anche che gli indicatori a disposizione lasciano prevedere che l’Italia è un paese destinato a superare i 10 milioni di cittadini stranieri prima della metà del secolo. È la mattina del 30 ottobre quando questi dati vengono diffusi. La sera di quello stesso giorno, nella stazione di Tor di Quinto, alla periferia di Roma, la brutale aggressione di un rumeno ad una donna che qualche giorno dopo morirà per le gravi ferite riportate. Con la giustizia fai da te esplode anche, con un’escalation incredibile, la crisi italo-rumena. Non abbia paura, vinca la paura con l’amore, ha risposto l’anziana madre della donna uccisa a Tor di Quinto a chi le chiedeva vendetta. E il dolore composto di una famiglia che pur nella tragedia ha saputo distinguere – Quello che è stato fatto a Giovanna poteva essere compiuto da uno del nostro Paese -, ci ha dato una grande lezione. Anche perché solo qualche giorno dopo un italiano a Guidonia sparava all’impazzata su 18 persone, facendo due vittime; ed italiani sono gli indagati a Cogne, Erba, Garlasco… Anche a Novi ligure, dove Erika e il fidanzatino avevano immediatamente indicato degli albanesi come autori del massacro che aveva reciso le vite della mamma e del fratellino. E come ieri ci facevano paura i maghrebini, gli albanesi, i cinesi, i musulmani in genere… oggi è il turno dei rumeni. Italia-Romania Ma come si caratterizza la presenza rumena in Italia? Ne abbiamo parlato con Franco Pittau, coordinatore del Dossier statistico. Molti rumeni – ci dice – vivono nel nostro Paese da anni e sono perfettamente integrati, ben inseriti nel lavoro, tant’è che hanno avviato 12 mila imprese. Amano molto l’Italia e imparano facilmente la nostra lingua. Nessuna comunità ha avuto un aumento così imponente, ma questo già prima dell’ingresso della Romania nell’Unione europea. Innanzitutto perché è un Paese vicino, da cui si arriva con facilità. Ed anche per la notevole differenza di benessere fra le due nazioni: basti pensare che in certe zone agricole rumene la mensilità può arrivare a 50 euro. Consideriamo poi che dal 2001, per decisione europea, i visti sono stati aboliti e quindi già da alcuni anni possono venire in Italia per meno di tre mesi senza problemi. Non dimentichiamo infine che lo scorso marzo abbiamo chiesto noi, per le nostre case 50 mila donne rumene. Un anno fa avevamo fi- ducia in loro, affidavamo loro la casa, i bambini, e dopo un anno abbiamo criminalizzato un popolo. Questo è un procedimento inaccettabile che non ci fa onore. Difficile capire i fatti di Roma. Probabilmente l’Italia – continua Pittau – ha preso coscienza, in una maniera non corretta, di esser diventata un grande Paese d’immigrazione, e lo ha fatto con fastidio e reazioni abnormi. Anche in Romania ci sono state manifestazioni di insofferenza nei nostri confronti per i provvedimenti presi dal nostro governo. Un’insofferenza che nasce da ragioni più profonde. Sono 22 mila gli imprenditori italiani che in Romania hanno messo su aziende che, oggi, contano 800 mila lavoratori. Si tratta di piccole e medie aziende del nord-est, ma anche di Enel, Ansaldo, Finmeccanica… Molti italiani sono venuti e si sono comportati da stranieri con l’arroganza dei dominatori. C’è il timore che la tragedia di Roma possa essere il pretesto per presentaci il conto, sostiene preoccupato Gianluca Testa, consulente aziendale, prima amministratore delegato di Zoppas e Flextronics, da molti anni in Romania. Sul fronte della sicurezza… Quel che è certo è che le reazioni, da un parte e dall’altra, sono state a catena. Sul fronte della sicurezza c’è chi ha invocato la tolleranza zero (uguale per gli stranieri e gli italiani che delinquono?). Il governo ha emanato un decreto legge (consistente di soli due articoli) il cui percorso parlamentare è, al momento in cui scriviamo, ancora incerto. In effetti è solo una modifica di un precedente decreto legislativo (cioè un atto normativo avente forza di legge), emanato in attuazione della direttiva europea che regola la circolazione dei cittadini dell’Unione all’interno degli stati membri. Vi si accentua la dimensione della pubblica sicurezza e si inaspriscono le pene in caso di reingresso o di prolungata permanenza di persone destinatarie di un provvedimento di allontanamento. Troppo poco per la destra, troppo per la sinistra radicale. E su queste tematiche, sulle quali si potrà tornare a percorso concluso, riportiamo le valutazioni di due esponenti politici di entrambi gli schieramenti (vedi box). Non dimentichiamo, comunque, che già da subito l’Unione europea ha messo sull’attenti l’Italia circa la possibilità di norme discriminatorie del decreto. Perché la direttiva europea a cui si accennava prima è molto attenta alla libertà personale. D’altra parte l’area di Schengen, all’interno della quale non occorre esibire passaporti alle frontiere, si sta via via estendendo a tutta l’Europa. Ai 15 Paesi attuali se ne aggiungeranno 9 dal prossimo 21 dicembre e già Romania e Bulgaria sono in lista d’attesa. … e su quello dell’accoglienza I fatti di Roma hanno dato anche un’accelerata alla riflessione sulla necessità dell’integrazione. A partire dalla premessa che, come scriveva Carlo Cardia su Avvenire, senza la sicurezza la nostra società regredisce; senza la solidarietà l’Italia si inaridisce , perché le due cose o crescono insieme o insieme naufragano. Insomma né buonismo arrendevole, né caccia alle streghe. Lungimiranza. La stessa che il presidente Napolitano, puntuale nei suoi interventi, ha sempre auspicato riconoscendo che senza immigrati il sistema Italia si bloccherebbe. Ed anche se c’è uno squilibrio tra la velocità con cui le molteplici sfide connesse all’immigrazione si presentano e la difficoltà, la macchinosità, la conflittualità politica che accompagna la produzione di misure idonee ad affrontarle, l’invito è quello di mettere in atto una politica di apertura verso l’immigrazione regolare e di integrazione degli stranieri rispettosi della legge. All’alta civiltà morale, frutto dei valori spirituali e culturali di ogni popolo e Paese si era richiamato Benedetto XVI. E non si può negare che, se una forma di razzismo è cresciuta negli ultimi anni, questa sia il razzismo culturale. Tanto da far dire a Sorin Cehan, fondatore della Lega Romeni e direttore della Gazeta romaneasca: È il nostro 11 settembre. In questi giorni, insieme a tante notizie gridate abbiamo letto e sentito di realizzazioni importanti nel campo dell’integrazione che ce l’hanno dimostrata difficile, ma possibile. Tanto, bisogna riconoscerlo, fa la Chiesa alla quale, questa volta sì, andrebbero fatti i conti in tasca per vedere quanto spende e si spende per la stabilità sociale. Ma molto possono fare e fanno politici e amministratori. Perché non basta espellere i delinquenti e abbattere baraccopoli. I governi italiani, sia di centrodestra che di centrosinistra – sostiene Pittau – hanno grosse colpe perché l’unico piano per la casa risale a decine di anni fa. Siamo fra i Paesi europei con il parco di edilizia residenziale pubblica meno consistente. Il controllo e la repressione non hanno senso se non sono legati a misure di sostegno sociale e di promozione culturale. Fare di più, dunque, su tutti i fronti. Usando intelligenza e cuore. Senza dimenticare, fra gli altri, i rom. I quali, lo ricordiamo, non coincidono con i rumeni. Minoranze che, spesso, sono rifiutate da tutti e la cui integrazione richiede un surplus di sforzi e di impegno. Anche loro sono protagonisti della questione comunitaria. MATO: VARARE MISURE ADEGUATE E CONDIVISE. Un appello a trovare una soluzione condivisa in tema di sicurezza. In tanti in queste settimane l’hanno lanciato. A cominciare dallo stesso ministro dell’Interno, Giuliano Amato, che sin dall’inizio ha sostenuto: Sarebbe davvero straordinario se l’Italia tutta unita e coesa si presentasse all’Unione europea per chiedere una soluzione concordata a un problema drammatico che rischia di farci cadere un pezzo di mondo addosso. Qui ci sono flussi da regolare, in Italia e in Europa. Dobbiamo farlo insieme, perché un singolo Paese, da solo, non può far niente. Noi non dobbiamo inseguire le emozioni, non dobbiamo fare operazioni di facciata: dobbiamo varare misure adeguate all’emergenza. Allora perché un decreto? Una delle ragioni che ci ha spinto a intervenire con urgenza è stata la percezione che nel cuore di tante persone, indifese e spaventate, esiste una tigre che rischia di uscire dalla gabbia. Ecco, se noi politici abbiamo ancora un senso e una responsabilità, dobbiamo prevenire ed evitare che scatti la giustizia fai da te e l’odio xenofobo. Che un decreto legge, comunque, non basti, è chiaro al titolare del Vi- minale: Con il provvedimento che abbiamo varato tagliamo le punte più alte, ma deve essere evidente a tutti che il fenomeno gigantesco che abbiamo di fronte è di un’altra dimensione. In Romania c’è almeno un milione di rom, così poco accetti nel Paese, che la maggior parte di loro nei prossimi mesi tenderà quasi sicuramente ad andarsene. E noi in Europa come rispondiamo? Faremmo meglio a sederci a un tavolo per stabilire insieme un quadro esatto dei flussi migratori. MANTOVANO (AN): FATTI E NON SLOGAN. Neanche la repressione è sufficiente se non è accompagnata da uno sforzo di integrazione. È chiaro che sarebbe assurdo far coincidere l’immigrazione con un’azione di contrasto della clandestinità – sostiene il sen. Mantovano -. È necessaria una collaborazione a monte con i Paesi d’origine per realizzare una vera disciplina dei flussi migratori ed è necessario accompagnare l’ingresso con misure di effettiva integrazione che non possono interessare solo la legge nazionale ma anche le regioni e gli enti territoriali. Detto questo, però, il rispetto delle regole vale per i cittadini italiani e deve valere anche per i comunitari e gli extracomunitari. Esiste un dovere di lealtà nei confronti dello stato ospitante, che coincide, per lo meno nella fase iniziale, col certificare la propria presenza, con l’avviarsi ad un’attività lavorativa. Se tutto ciò non avviene è più probabile l’attrazione da parte del lavoro nero, dell’accattonaggio e nell’area della criminalità . Senatore, come arrivare ad elaborare un progetto politico condiviso e quindi duraturo? La condivisione deve ruotare intorno ai fatti e non agli slogan. Penso a delle affermazioni di principio a cui non corrispondono norme coerenti, come col decreto legge sugli allontanamenti dei comunitari, partito sulla base di determinate affermazioni e la cui vita sta proseguendo in contrasto rispetto a queste premesse. Bisognerebbe sottrarre la sicurezza dalle suggestioni ideologiche prima ancora che dagli scontri fra partiti. Le ideologie sono dannose per gli stessi comunitari che hanno bisogno invece di percorsi di integrazione reali e non di rapide sanatorie accompagnate da nulla di fatto in termini di sforzo per rendere compatibile la cultura di loro provenienza con la cultura in senso lato del paese ospitante. Quanto è importante una collaborazione a livello europeo? Basta emanare delle direttive? Intanto le direttive dovrebbero essere adeguate alle esigenze effettive e non sempre lo sono anche per i tempi molto lunghi che richiedono. La collaborazione però in sede europea è essenziale per evitare, come sta accadendo adesso, che alcuni Stati europei, come Francia e Spagna, stringono le maglie della sicurezza e invece in altri Paesi, come in Italia, queste maglie si allargano e i delinquenti vengono da noi. UN’AMICIZIA ANTICA Intervista a Radu Vasile, rumeno, storico, professore universitario, primo ministro dall’aprile ’98 al dicembre ’99. Come vede la situazione dei suoi connazionali in Italia? Un fatto molto significativo è che i rumeni si sono organizzati politicamente in un partito, cosa singolare per i nostri connazionali emigrati all’estero. Molti di loro credono di aver trovato in Italia una seconda patria, ma altri ritorneranno in Romania, portando con sé quello che hanno visto, capito e ricevuto in Italia. In secondo luogo bisogna tener conto che i rumeni sono un popolo europeo e cristiano, quindi con valori vicini a quelli degli italiani. La tradizione dei rapporti rumeno-italiani è così antica e profonda che non può essere incrinata da questo tipo di eventi. Una storia travagliata, quella del popolo rumeno. Che prospettive ha per un rilancio economico e non solo? Usufruire dei fondi dell’Unione europea potrebbe far diminuire l’esodo della mano d’opera dalla Romania, dal momento che già se ne sente la mancanza proprio negli ambiti che assicurano la crescita economica del Paese: costruzioni, lavori pubblici, ecc. Il nostro è uno dei popoli europei con grande capacità di adattamento, inventiva, che lavora bene e con precisione, che vanta grandi risorse nella parte intellettuale della popolazione. Durante il comunismo abbiamo sofferto molto, ma la transizione al capitalismo è avvenuta come una spianatrice che ha distrutto tutta la gamma dei valori. Diverse persone sono state attirate dal guadagno facile e immediato. La scuola offertaci dall’emigrazione è essenziale in questo senso. Rumeni e rom. Spesso vengono confusi fino ad essere identificati l’uno con’altro… Sì, esiste una confusione in questo senso. Gli zingari (rom) hanno una loro storia specifica. In Romania sono stati per secoli schiavi dei grandi feudatari, fino agli anni Settanta del XIX secolo, quando sono stati resi liberi. Organizzati nei clan familiari, gli zingari hanno cominciato a condurre la loro vita ai margini della società a causa delle proprie loro leggi e abitudini e, dall’altra parte, a causa del rifiuto sperimentato da parte della maggioranza della popolazione rumena e dai governi che dopo il 1990 non sono riusciti ad integrarli nella società. Anche se hanno costituito vari partiti, hanno i loro rappresentanti in parlamento, la maggioranza degli zingari si trova sotto la soglia della povertà. Credo che la chiave del problema sia nell’educazione che richiede molta pazienza e comprensione reciproca e in un’opera di evangelizzazione da parte della Chiesa. I primi a fare le spese della criminalità sono i rumeni onesti e lavoratori. Cosa fare per tutelare i loro diritti? Devono essere gli stessi rumeni in Italia ad organizzarsi e prendere le misure giuste che impediscano che questi fatti si ripetano, collaborando con le autorità italiane. I rumeni di lì devono dimostrare che sanno vivere e lavorare in pace in Italia, nel loro Paese adottivo. E allora l’immagine sulla loro comunità cambierà. In caso contrario dovranno sopportare il rigore della legge. Se no i loro sogni non hanno la chance di realizzarsi.

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