I grandi concerti dell’Accademia

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Roma, Accademia Nazionale santa Cecilia. Più si risente il Requiem verdiano – in qualsiasi interpretazione – e più ci si convince che quest’opera teatrale (che non è liturgica, nonostante i brani tratti dalla Missa pro defunctis) è la moderna domanda di un laico di fronte alla morte. Se un Dio c’è, egli fa paura, occorre chiedergli supplichevoli di essere buono. La morte è terribil cosa (Otello), contro di essa Verdi prova tristezza, scoraggiamento, rabbia, furore. C’è, ma solo alla fine di un combattimento pressoché cosmico, un raggio di tenuissima pace. Antonio Pappano, assecondato da un quartetto eccellente per bellezza vocale, levità di fraseggio, nitidezza di suono (Hanja Arteros, Sonia Ganassi, Rolando Villazòn, René Pape), non ha voluto indulgere alla retorica cui qualche volta sembra prestare orecchio, ma ha preferito filtrare i suoni, distenderli con una trepidazione tipicamente verdiana. Così, il mormorio sommesso, con cui l’opera inizia e si conclude, è apparso nella sua commovente sfinitezza, grazie ad un’orchestra il cui suono sa di velluto. Una passeggiata nei secoli è invece il programma offerto dal Quartetto Hagen – quattro fratelli austriaci, cresciuti in una famiglia di musicisti. Si incomincia con l’amato Haydn – nel bicentenario della morte – e il suo Quartetto n. 20. Melodico, sereno, con variazioni dinamiche attese, sfodera la sua natura intimistica nella gioia di far musica da camera, lavorando di cesello, così da dare all’ascoltatore tutta la bellezza del dialogo fra gli strumenti, come fossero persone. Aggressivo è il Quartetto n. 3 di Bartòk, che glissa sulle note, stridendo, come in preda alla follia. Una musica mentale, ma non per questo meno fascinosa; allucinata, si direbbe, sentendo l’ultimo tempo, eppure così vera nel descrivere le lacrime di un animo straziato. Alla fine, nel bicentenario della nascita, non poteva mancare Mendelsshon. Un musicista in cui la cultura non è freno alla fantasia, ma la depura dagli eccessi emotivi, offrendo la visione del sentimento senza asprezze. Gli Hagen, che con disinvoltura passano da uno stile all’altro, l’hanno capito, per la gioia degli ascoltatori. Restando a Mendelsshon, un altro evento è stato certo il concerto di Roberto Prosseda, dedicato alle Romanze senza parole. Questo giovane, affermato pianista possiede uno stile musicale ed umano di naturale aristocrazia. Crea da subito un senso di eleganza, di misura. Il fraseggio è limpido, il tocco impalpabile, le dinamiche giuste. Il suo è un Mendelsshon di sfumature. Sempre virile perché, nella selezione delle romanze (dall’opera 19 all’ 85) gli scatti, le fughe, i capricci e le barcarole non presentano nessun cedimento al sentimentalismo o all’effetto facile, ma vengono espressi da Prosseda con la naturalezza di chi conosce a fondo il compositore e la sua ispirazione che, pur tenendo conto del passato – Beethoven, Schubert, ad esempio – lo rende sé stesso: un poeta della limpidezza e dell’equilibrio. Ascoltare anche l’ultimo cd del pianista, con i 56 Lieder ohne Worthe (romanze senza parole) per convincersene.

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