I fuochi dei kelt

Quando Alessandro Manzoni, dopo la ventennale fatica dei Promessi sposi, si pentì di aver tentato il romanzo storico, genere misto di storia e d’invenzione, e scrisse un trattatello che rinnegava la possibilità di quel connubio per amore della verità storica e dell’arte stessa, che non riusciva più a vedere mescolate, sbagliava, ma per due buone ragioni: per un’esigenza estrema di verità ma anche, come non molti sanno, per preservare dall’altra parte il diritto incondizionato dell’arte al proprio sguardo creativo, che contempla qualcosa di visto irrevocabilmente. Il romanzo storico, genere eminentemente romantico, non ha molti titoli e molte prosecuzioni novecentesche (bisogna pensare ai russi da S? olokov a Grossman a Pasternak, in Italia a Bacchelli), perché è difficilissimo, e spesso si sbilancia nell’invenzione, essendo l’equilibrio dei massimi modelli ottocenteschi, quello manzoniano e quello tolstoiano, difficilmente raggiungibile. Qualche anno fa Giovanni D’Alessandro ci aveva dato un romanzo storico di bellissima riuscita, quel Se un Dio pietoso (Donzelli) che ora si dovrebbe ripubblicare e diffondere meglio di allora (quando, con le sue sole forze, raggiunse le 20 mila copie), ed era frutto, oltre che di una matura e limpida scrittura narrativa, di un lavoro di scavo storico esigente e puntuale – niente a che vedere con apparentemente consimili bestselleracci della stessa area. Ora si accendono I fuochi dei Kelt (Mondadori), fiamme crudamente e robustamente storiche, intorno al nocciolo di invenzione poetica, che non esito a definire romantico (non secondo un’inclinazione retrograda ma nel senso della perennità della categoria romantico come di quella classico), della breve vicenda umana di un ragazzo, Hocham, schiavo auriga di un principe kelt, vittima predestinata dei giochi dei grandi (che Manzoni definiva eroici furfanti) tra i più grandi e conclamati Cesare e Vercingetorige (Kaisar e Werkinketrix) impegnati nella tremenda carneficina della guerra gallica. La contemplazione morale manzoniana, di cui parlavo a proposito dell’altro romanzo storico, qui diventa, per avanzata fedeltà a sé stessa, veduta irrevocabile, e sia turbata che ferma, anzi irremovibile, sull’ampia sciagura umana, illuminata in quell’asse verticale della storia antica, ma anche, e insieme, distesa come una metafora di sé stessa sempre, prima e poi, ripetuta. D’Alessandro studia sul serio la storia, come il lettore attento può costatare e come, al di là delle chiacchiere, oggi non si usa molto; e perciò né si illude né si delude, ma esplora, percorre e riconduce alla parola letteraria le misere reliquie umane, le loro tracce sepolte e plurime, le brame e i terrori dolorosamente inarcati e precipitati nelle catastrofi che si susseguono. Nell’accertare non giudica, nel dipingere un animo giovane, ignaro e semplice ma non sprovveduto, non lo racchiude in una gabbia sentimentale, e proprio così, nella sua delimitata, patetica singolarità, lo universalizza vittima innocente. Può farlo perché lui, lo scrittore, lo scriba direbbe Luzi, è aria (…) che trascorre su tutto, e, respiro del vento, apre già chiedendo Dove siete? ai protagonisti noti e ignoti di quel passato. Può farlo perché dà del tu al suo umile protagonista come dà del tu ai particolari minimi e massimi della storia, non solo bellica, amorevolmente indagata e ordinata in disegnate esposizioni, e restituita in episodi, scorci, ricordi, sogni. In tal modo la potenza, il fasto, la violenza clamorosa che riempiono il racconto non risultano mai esibiti, ma sempre evocati. Ma è ovvio che dare del tu alla storia non può essere un vezzo retorico, bisogna poterlo e saperlo fare. D’Alessandro lo sa e può perché domina perfettamente la materia a cui dà del tu, e perciò sa anche farla levitare in immagine. E la conduce, come conduce il suo sognante ragazzo esperto di cavalli e inesperto del mondo, di gloria e orrore in gloria e orrore fino all’ultimo, quello in cui i Kelt sono sconfitti, Vercingetorige si arrende e Hocham cade, andando incontro a una orribile morte. Agonizzante, riceve il colpo di grazia pietoso da un centurione romano che lo ha guardato con occhi non da vincitore. Si potrebbe dire: è la guerra gallica vista dalla parte dei Kelt; ma la verità è a mio parere più fonda: quegli occhi non da vincitore hanno lo sguardo stesso dell’autore, che infatti dedica il libro Ai morti senza nome di ogni guerra.

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