I colori di New York

Nessuno, credo, percorrendo le sale milanesi, riesce a dimenticare l’undici settembre. Le opere in mostra anzi sembrano verificare, ancora una volta, la funzione “profetica” degli artisti: quel saper guardare in avanti, e nello stesso tempo tradurre in forma e colore il proprio tempo. Certo, non è rassicurante un tela come Number 27 di Jackson Pollock (1950): un groviglio di linee, segni e macchie “gocciolanti”, che immediatamente rimandano al sangue. Quello del secondo conflitto mondiale, appena terminato, e quello – soprattutto – di ciò che è seguito: la lacerazione della coscienza umana, la perdita, dinanzi all’orrore, di ogni senso del vivere. Un’arte, questa di Pollock, affascinante e tremenda. Che suona un anelito prepotente alla libertà espressiva. Tagliando netto con la tradizione, Pollock si affida all’ispirazione dell’attimo, ed i percorsi sinuosi delle pennellate paiono indicare altrettante strade dell’anima, in cerca di sentieri nuovi, di altri significati per l’esistenza. Nel fluttuare del segno, l’emergere della tinta bianca può forse dare la visione di una qualche luce, nel labirintico intrecciarsi dei sentimenti. C’è uno stravolgimento, cosmico, anche nelle Stagioni (The Seasons, 1957) di Lee Krasner. Le linee si muovono ad ondate cromatiche fra vuoti e pieni: l’ossessione moderna del moto continuo, in cui i rossi e i verdi (le emozioni, la vita della natura) si agitano freneticamente, parla di una fatica abnorme ad un attimo di stasi, in cui riflettere. Anche la natura si va mutando – sembra dire la tela -, come l’uomo, in un dinamismo che fa perdere l’armonia, e consuma la vita così come consuma i pensieri. Tutto allora rischia di diventare ripetitivo, all’infinito, senza un evidente significato. Quante volte abbiamo visto un volto simile a quello della World’s Fai Girl di Roy Lichtenstein (1963), una ragazza “felice”, i capelli rossi al vento, alla finestra come una dama veneziana del cinquecento. Un soggetto ovvio: eppure, forse grazie all’ovvietà, Lichtenstein riesce a fissare un’icona del nostro mondo. Il mito della giovinezza eterna è qui, nella bocca “smagliante”, come lo è nel vaso di frutta (Still Life with Crystal Bowl, 1973) in cui il gelo del cristallo esalta i colori smaltati astraendoli così da farli irreali. È irreale la ragazza, sono irreali i frutti. Nel gioco dell’astrazione, Lichtenstein riesce a creare una poesia della linea e del segno, che toglie dalla banalità l’immagine. Prova di come un artista autentico possa cavare grumi di bellezza anche dall’ovvietà, perché la sua anima non è ovvia, ma ancora viva. È invece una bellezza asettica, di una seduzione superficiale Great American Nude, un olio del ’64 di Tom Wesselmann, altra icona contemporanea: l’esaltazione del corpo come fonte di piacere sensibile e null’altro, un materialismo formale e spirituale che si esprime nel turgore dei colori e nella significativa assenza dello sguardo. Al mito del corpo, l’occidente affianca quello delle idealità. Osservando Chairman Mao (1975) di Andy Warhol, colpisce l’aureola extratemporale nel ritratto del presidente cinese. A Warhol bastano poche spazzolate di verde chiaro e di fondo oltremarino per dar vita ad una canonizzazione “laica” del personaggio. È un uomo-mito che si presenta, circondato da un’aura idealizzante, come un gentiluomo tizianesco. Ma Warhol genialmente intuisce la differenza fra quest o e quello, perché fa scorgere sul sorriso di Mao la traccia stereotipata della “fotocopia”. Tutt’altra è la voce del “graffitaro” Basquiat, attraverso cui parla la vita notturna e drammatica della città metropolitana. È una generazione eccitata e giovanile che vuol comunicare ansia e inquietudine di una società multirazziale e multiculturale. Così LNAPRK (1982) esplicita con assolutezza una scorribanda mentale prima che cromatica, la lotta contro tutto ciò che è “formale”: chiaro, definito. Nel groviglio di simboli scritti disegni, Basquiat dà voce alla ricerca di senso, in un gemito doloroso che sente l’urgenza di una possibile comunione ad ogni livello. Anche con il trascendente. Stupisce (ma non troppo) l’Altar Piece (1990) di Keith Haring, un trittico in bronzo dorato che è una sorta di Giudizio finale alla rovescia, o meglio, all’insegna dell’amore. Su mille figurine agitate o imploranti scende (o sale?) verso un Cuore, un bambino, forse il bambino che è in ciascuno. Ed è, una volta tanto nell’arte di questi anni, un moto vorticoso di musica e di luce. Perché una società come quella americana – e occidentale – ha necessità di luce. Se Richard Estes in Ansonia del 1977 sfiderà, come un Canaletto moderno, la fotografia, col ritrarre “fotograficamente” un quartiere, in una visione in fondo “piatta” (a vari livelli) della città; Peter Halley nel suo The Acid test (1991-92) si affaccerà all’orizzonte con campiture cromatiche fortissime e innaturali. Un colore “sforzato”, a sfidare la natura, orgogliosamente ad inventarne una di nuova, di natura. Tuttavia, dietro queste immagini esplosive o piatte, si avverte una “debolezza”, che non è tanto espressiva quanto spirituale. Nell’intreccio delle arti di questi decenni, si nota un nichilismo a volte ripiegato su sé stesso, insieme all’attesa di una sorta di liberazione da un mondo troppo denso e rumoroso. Quasi un aspettare qualcosa che scuota e faccia volare in alto, più in alto, grida dai lavori degli artisti, come si avverte nel bronzo desolato Incompiuto di Cy Twombly, 1998. Forse, per ritrovare una nuova verginità, fra le tinte chiare di un bosco di meli, così come lo propone Alex Katz in una sua tela intrisa di speranza. Dal Whitney Museum of American Art. 93 fra sculture e dipinti, la maggior parte mai esposti in Europa, raccontano 50 anni di arte americana, o meglio newyorkese. Quattro sezioni con opere di artisti quali Warhol, Basquiat, Pollock, Lichtenstein, per citare i più noti. Dall’Espressionsimo astratto alla Pop art, dal Minimalismo all’Informale; al Digitale.

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