Hersh, una luce nel buio della guerra in Terra Santa

Dialogo con Roberto Cetera, corrispondente dell’Osservatore Romano a Gerusalemme. La straordinaria testimonianza di umanità della famiglia Golberg Polin, la realtà di un conflitto israelo palestinese che appare senza via di uscita e la preziosa presenza di pace dei cristiani
Memoriale per Hersh Goldberg-Polin a Gerusalemme EPA/ABIR SULTAN

Nel clima di smarrimento e di odio che avvolge la Terra Santa, con il precipitare della situazione dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023 e la carneficina in corso a Gaza, abbiamo citato, nell’articolo della rivista di dicembre 2023, come punto di luce nella notte la testimonianza di Rachel Golberg – Polin, madre di Hersh, un ragazzo di 23 anni pacifico e aperto al mondo che è stato rapito e preso in ostaggio da Hamas.

Jon Polin e Rachel Goldberg parlao allla convention deemoratica negli USA, EPA/WILL OLIVER

Le sue parole che ripudiano ogni sentimento di odio ma esprimono condivisione con il dolore delle vittime di Gaza hanno trovato ascolto anche negli Usa, Paese da cui proviene la famiglia Goldenberg Polin. I genitori di Hersh, Paol e Rachel, sono intervenuti al congresso dei democratici.

La speranza nella liberazione degli ostaggi è sempre più in alto mare ed è arrivata la terribile notizia della disumana esecuzione di Hersh assieme ad altri 5 compagni di prigionia. Il giovane, tra l’altro, aveva subito, in questi mesi, anche l’amputazione di un braccio rimasto ferito a quanto pare dai bombardamenti in corso sulla Striscia. Nonostante il grande dolore davanti a tanta crudeltà, Rachel ha mantenuto parole di pace e riconciliazione espresse durante il funerale del figlio in cui si è registrata una grande partecipazione di persone, con tanti amici a sventolare la bandiera della squadra del cuore di Hersh, una formazione espressione del sindacato, che il giovane aveva esposta nella sua stanza assieme ai manifesti contro il razzismo e a favore di Gerusalemme come “città di tutti”.

In questi mesi Rachel ha cercato e ottenuto, tramite il corrispondente a Gerusalemme dell’Osservatore Romano, il rapporto con papa Francesco che ha avuto anche l’occasione di incontrare a Roma durante la visita in Vaticano di alcuni familiari degli ostaggi.

Jonathan Polin a Rachel Goldberg e la folla al funerale di Hersh EPA/GIL COHEN-MAGEN / POOL

Gli articoli di Roberto Cetera sul giornale della Santa Sede entrano nel cuore della questione della Terra Santa e permettono di seguire la storia della famiglia di Hersh alla quale sentiamo di dover esprimere una profonda gratitudine così come a tutte le realtà, di ebrei e palestinesi, della rete per la pace in Medio Oriente.

Abbiamo, perciò, incontrato Roberto Cetera per raccogliere direttamente la sua testimonianza su quanto avviene in Israele e Palestina. Cetera è giornalista all’Osservatore Romano, con una esperienza pregressa, come il direttore Andrea Monda, di professore della religione cattolica in un liceo romano. Teologo di formazione, volge anche corsi sulla pedagogia e didattica della religione presso il pontificio ateneo Sant’Anselmo.

Come è iniziato il tuo rapporto con la Terra Santa e cosa comporta per te il fatto di essere italiano e romano?
Frequento la Terra Santa da più di 40 anni e questo mi ha dato la possibilità di osservare tanti capitoli del conflitto che si trascina ormai da 76 anni.  C’è un tragico paradosso: più il conflitto si protrae e più una sua possibile conclusione si allontana.

Ora ad esempio la prospettiva dei due stati che si era aperta 31 anni fa ad Oslo sembra essere completamente scomparsa.

Il problema di fondo è che nel corso di questi 40 anni tanto la società israeliana che quella palestinese sono profondamente cambiate. E non in meglio.  Un esempio è dato dalla “religionizzazione” del conflitto su entrambi i fronti.

In che senso?
Le religioni certo erano sullo sfondo della contrapposizione ma non avevano il carico motivante alla radicalizzazione che hanno oggi.  L’ OLP di Arafat aveva un impronta laica ed interreligiosa lontana anni luce dal fondamentalismo islamista di Hamas, così come i padri fondatori di Israele tenevano assai alla distinzione tra la sfera istituzionale e quella religiosa, la basic law sull’ identità ebraica dello stato non sarebbe mai passata 30 anni fa. Non c’è solo un problema di élite politiche, ma una questione sociale profonda. C’è una questione che viene spesso sottovalutata (in nome del politically correct) ed è quella antropologica: una distanza abissale che impedisce la convivenza civile tra due mondi costretti in un piccolo lembo di terra. Sicuramente la guerra in corso è la più lunga e più cruenta tra le tante succedutesi in 76 anni.

Pur di fronte ad una tragedia come la carneficina in corso a Gaza, si sente dire che è impossibile avere le idee chiare perché in Medio Oriente “nulla è come appare”. È davvero così o è possibile partite da alcuni punti fermi?  Quali?
Ogni volta che rientro in Italia sono dispiaciuto e anche un po’ irritato dalla lettura semplicistica e polarizzata che viene data in Italia e in Europa del conflitto.  Non si può parteggiare a prescindere per una delle due parti, come se si trattasse del derby Roma Lazio.  Perché torti e ragioni di entrambi si sommano fino a confondere la realtà.  Si, é vero, nulla è come appare in Medio Oriente.  Ci sono dinamiche interne ai due schieramenti (tutt’altro che monolitici, diversamente da come vediamo le cose qui in Europa) che rendono imponderabili e imprevedibili tante evoluzioni del conflitto.

Un punto fermo comunque c’è, ed è indisputabile: cioè l’ occupazione illegale dei Territori palestinesi dal 1967.  È questo il punto centrale.  Un’occupazione che dura da 57 anni, che relega i palestinesi in uno stato di miseria e li priva di un qualsiasi stato civile. Israele potrebbe logicamente argomentare “abbiamo vinto una guerra e quei territori (che loro ora chiamano con i termini biblici Giudea e Samaria) ormai sono nostri, come sempre accade quando si vince una guerra”.  D’accordo, ma allora proceda ad una formale annessione e si riconosca la cittadinanza israeliana, con pari diritti, ai palestinesi che vi vivono.

I palestinesi dal canto loro soffrono l’incapacità manifesta -e costante in decenni- ad esprimere una leadership politica capace, onesta ed autorevole.

Grazie a te abbiamo conosciuto la storia della famiglia Golberg – Polin.  Da dove nasce questa umanità straordinaria in mezzo ad uno scenario che appare senza via di uscita? È un caso unico o esprime una realtà presente in Israele? Cosa possiamo fare per dargli sostegno?
Rachel é una donna straordinaria. Un rapporto professionale che -come ho raccontato sul mio giornale- è divenuto un’ amicizia .   Le sue parole sulla comprensione del dolore altrui dovrebbero essere meditate da tutti. (Qui il link all’articolo di Cetera)

I pensieri che Rachel esprime sono più diffusi di quanto si creda in Israele.  Mi duole constatare che c’è molta più dialettica tra gli ebrei d’ Israele che in quelli della diaspora.

Cardinale Pizzaballa a Gaza NPK ANSA / Patriarcato Latino di Gerusalemme

I cristiani sono ormai un minoranza estrema in Terra Santa. Come agiscono dentro il conflitto senza fine? Non esiste un modo per fermare la diaspora in corso? Come sono considerati nel mondo palestinese?
I cristiani sono solo il 2% della popolazione ma la loro considerazione è molto più ampia.  Da un lato godono di una maggiore libertà di espressione perché essere cristiani non è riconducibile ad un’appartenenza etnica. Dall’ altro lato la vicinanza coi sofferenti di ogni parte viene spesso equivocata come equidistanza e non come equivicinanza. Così il Patriarca e le comunità cristiane tutte sono spesso tirate per la giacchetta dalle faziosità delle due parti.

Un piano su cui la presenza cristiana rileva in modo particolare è quello dell’ educazione alla pace.   Che è molto importante perché il fallimento di Oslo è anche dovuto al fatto che i leader politici non hanno saputo farlo metabolizzare alle due società.  In Israele e Palestina vi sono 39 scuole cristiane (16 della Custodia) che sono frequentate in maggioranza da non cristiani e in cui si insegnano pace, rispetto e tolleranza.  Il presidente israeliano Herzog quando l’ ho intervistato lo scorso anno mi ha detto “Le vostre scuole sono un’ eccellenza del sistema educativo”.

La visita del patriarca, primo civile, ad entrare a Gaza dal 7 ottobre, così come la splendida iniziativa di padre Ibrahim Faltas che insieme al governo italiano è riuscito a portare negli ospedali italiani 150 bambini di Gaza, hanno avuto un grande rilievo nel riconoscimento del ruolo dei cristiani in questa terra.

Come ti sembra che sia cambiata la società Israeliana negli ultimi anni? Si va verso un punto di rottura interna?
Ho già detto sopra a proposito delle divisioni interne ad Israele.  Il Paese non è mai stato così diviso dalla sua fondazione.   É indubitabile che ciò sia avvenuto soprattutto per il ruolo divisivo del premier Netanyahu, ma più in profondità la società è molto cambiata come spiegavo sopra.

Cosa è Hamas? Ha davvero il consenso maggioritario tra i palestinesi? Quale peso ha l’accordo concluso in Cina tra 14 partiti palestinesi compresi Hamas e Al Fatah? A tuo parere la liberazione di Marwan Barghouti
L’accordo tra le fazioni palestinesi promosso dai cinesi che menzioni é morto il giorno dopo che è stato firmato. Sarà la decima volta che sottoscrivono accordi che si sciolgono il giorno dopo.  Il leader di Hamas assassinato a Teheran, Haniyeh, era uno specialista, ne ha firmati a iosa. Il problema è che una riunificazione palestinese è possibile solo attraverso una leadership autorevole e credibile, che non esiste. Dicono che Barghouti potrebbe farlo, ma gli israeliani non lo libereranno mai.

Il panorama della rappresentanza politica palestinese è deprimente: Fatah ha ormai perso ogni legittimazione, Hamas dopo il 7 ottobre entra in una analoga crisi profonda.  Sicuramente a Gaza, ma anche in Cisgiordania, dove la gente può anche applaudire al massacro del 7 ottobre, ma da spettatore: che quella follia rimanga fuori della West bank.

Questo non è buono perché la rabbia sempre più diffusa potrebbe trovare sbocchi in espressioni ancora più radicali e violente di Hamas, come Jihad islamica e Daesh.

La brutalità della risposta vendicativa israeliana fomenta queste reazioni.  Come ha giustamente detto perfino il portavoce dell’ esercito israeliano, sostenere l’ obiettivo di vittoria totale a Gaza è gettare sabbia negli occhi degli israeliani.  Perché le armi possono sconfiggere altre armi, ma non un’ideologia. Hamas non é “solo” terrorismo. E anche sul piano militare, mi diceva qualche giorno fa un ex ufficiale israeliano «come si può combattere una guerra contro uno che é contento di morire ed entrare nel paradiso dei martiri?».

La soluzione dei due stati ha ancora senso oppure bisogna per forza andare verso un unico stato laico binazionale? 
La soluzione dei due stati sembra essere definitivamente morta. E forse lo è. Ma se è così, Netanyahu ci spieghi cosa vuol fare dei territori occupati da 57 anni.  Si decida e dichiari l’annessione, in fondo ha vinto la guerra può farlo.  Ma allora riconosca anche il diritto di cittadinanza e pari diritti ai palestinesi.  Ma non vuole farlo.  Ma allora cosa vuole? Che sei milioni di persone se ne vadano fuori del loro Paese?

Io penso che i due stati siano ancora l unica vera soluzione.  Se vedi due che si menano li separi, non li esorti ad andare d’accordo.  Voglio dire che la soluzione dei due stati potrà darsi solo se imposta dall’ esterno.

Perché le due parti non la vogliono. Le due parti hanno solo una cosa in comune: entrambi reclamano il loro Paese “dal fiume al mare”.  Su questo Netanyahu e Sinwar sono in perfetto accordo.

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