Haiti: storia di dolore e di speranza

Uno stato fallito, come ammettono molti, ormai preda del narcotraffico. Una crisi istituzionale profonda, mentre la natura continua a fustigare questa terra. Eppure si riesce ancora a sperare.
(AP Photo/Matias Delacroix)

Alle otto di mattina, puntuale, Enzo è il primo ad arrivare in sella alla sua piccola moto. Si toglie il casco e pronuncia un buenos días che è una via di mezzo tra il saluto in spagnolo ed il bonjou creolo, la sua lingua. Si esprime ancora a disagio nel nuovo idioma. A volte da l’impressione di non avere la “r”. Fa freddo per questo haitiano che, stimo, non ha compiuto i 30. Si muove quasi goffamente, infagottato com’è, per combattere la bassa temperatura del mattino. Il maggio australe coincide con il novembre boreale, l’inverno è alle porte e si fa sentire. Poi qui, nella città cilena di La Serena, siamo in zona semi desertica, con forti escursioni termiche tra il giorno e la notte. Per cui il saluto mattutino si trasforma in commenti sul freddo. Per gli haitiani l’estate della nostra regione, che non è caldissima, equivale al loro inverno. Li ho visti infreddoliti e con berretti di lana in pieno gennaio (il luglio boreale). E non potrebbe essere altrimenti, se sei cresciuto in un clima dal caldo intenso durante tutto l’anno.

(AP Photo/Odelyn Joseph)

Enzo fa il muratore ed è il caposquadra nella ristrutturazione che stiamo facendo a casa: tutta la parte in legno è stata consumata dalle termiti e stiamo lavorando da mesi per sistemarla. Enzo è arrivato in Cile da solo, ormai sono due anni, e sta facendo i documenti per portare qui moglie e figli (a proposito, non mi ha ancora detto quanti ne ha). Li sostiene con le rimesse che ogni mese manda a casa, compra dollari e li spedisce, tenendo per sè solo lo stretto necessario. Mentre sistema la moto in giardino, gli chiedo come stanno i suoi. Mi guarda sconcertato: «tu credi che possano stare bene? Perché credi che io sono qui?». Nelle sue parole colgo tanta pena ed amarezza, nostalgia e sofferenza. La squadra di muratori è composta quasi al completo da haitiani. Li senti parlare tutto il giorno in creolo, ridono, scherzano tanto. Sempre molto gentili e dolci nell’esprimersi. Essendo anch’io straniero e da poco in questa terra, comprendo il suo sentimento.

«Haiti era un Paese dove si poteva vivere – mi dice -. Ma oggi non è niente. L’ultimo presidente che voleva cambiare qualcosa l’hanno eliminato». Si riferisce all’assassinio (7 luglio 2021) di Jovenel Moïse, i cui mandanti sarebbero imprenditori ed ex politici haitiani che avevano assoldato un commando di ex militari colombiani per eliminarlo. La moglie si è salvata per poco fingendosi morta. Nelle settimane precedenti l’attacco alla casa del Presidente, il Paese era stato teatro di manifestazioni di protesta. Il governo non riusciva ad affrontare efficacemente una dura crisi economica. D’altro canto, non era stato ancora possibile riprendersi dopo il terremoto del 2010, che aveva provocato immani distruzioni: 316 mila morti e 350 mila feriti. Nel luglio dello scorso anno, poi, un nuovo sisma ha provocato altri 2.200 morti, 13 mila feriti ed una situazione generale che definire delicata è poco. L’Onu segnala danni ulteriori alle infrastrutture: ad altre 137 mila case, 95 ospedali, 1.250 scuole. Più di 300 mila studenti hanno serie difficoltà a frequentare le lezioni.

(AP Photo/Dieu Nalio Chery, File)

Il panorama politico è ancora incerto. Il narcotraffico, non è un caso la presenza di sicari colombiani nell’attacco al presidente Moïse, ha aggravato le cose, perché se prima una ventina di famiglie controllavano a proprio vantaggio l’economia nazionale, oggi a questa oligarchia si aggiungono coloro che hanno trasformato questo stato fallito in una via di transito della droga, senza troppi controlli. Moïse sarebbe stato eliminato perché stava per consegnare agli Stati Uniti una lista di imprenditori implicati con i cartelli della droga. Bisogna precisare che la droga in questi casi non è per il consumo locale, se non marginalmente. I Paesi centro americani, ma anche quelli sudamericani, sono utilizzati soprattutto per far viaggiare la droga verso le destinazioni principali, specialmente Stati Uniti ed Europa. I cartelli colombiani e messicani sono gli operatori di questo commercio internazionale. Haiti paga il prezzo di essere troppo utile a questo scopo, sommerso com’è dalla sua crisi istituzionale.

«Noi non decidiamo niente», mi dice Enzo mentre prepara la scala per iniziare a lavorare. «Sono gli altri che decidono, e non vediamo altra possibilità che andarcene», mi dice amaro. Guarda oltre, forse tornando con la mente al caldo del suo Paese ed al calore della famiglia lontana. Non so cosa dirgli. Ma è lui a concludere: «Ma Dio non ci abbandona, Lui c’è!», poi sparisce tra le stanze da dipingere e i soffitti da imbiancare.

Mi sovviene che anche per l’antico Israele, sottomesso alla schiavitù egiziana, sembrava non ci fossero possibilità. Finché il Signore della storia non è intervenuto. Non penso tanto al miracolo delle acque del Mar Rosso separate per far passare gli israeliti, ma al prodigio di un popolo divenuto cosciente di avere i suoi Mosè e la sua Terra Promessa. E mi pare che questo sia il vero miracolo. Ci spero, anche nel caso di Haiti.

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