Guerra in Ucraina, i giorni di Caino/2. Intervista ad Antonio Maria Baggio

Focus sulla guerra in Ucraina per un dialogo aperto ed esigente. Seconda parte dell'ntervista ad Antonio Maria Baggio, professore ordinario di "Filosofia politica" nell’Istituto Universitario Sophia.
Ucraina guerra (AP Photo/Andrew Marienko)

Continuiamo dopo una prima parte già pubblicata l’intervista ad Antonio Maria Baggio, professore ordinario di “Filosofia politica” nell’Istituto Universitario Sophia, nonché Direttore del Center for Research in Politics and Human Rights e presidente della Fondazione Toni Weber.

Ci troviamo di nuovo di fronte al diritto di ingerenza umanitaria proposto da Giovanni Paolo II? È questo il caso della guerra in Ucraina che legittima i Paesi europei ad inviare armi al governo di Zelensky?
Il diritto di ingerenza umanitaria non costituisce, a mio avviso, una specie di “ritorno indietro”, come se avesse un valore inferiore rispetto alla “nonviolenza attiva”. Esso è un diritto da interpretare con grande attenzione onde evitare distorsioni e abusi, ma è un diritto reale da applicare se le circostanze lo richiedono; esso diventa, cioè, dovere morale di intervenire a difesa e custodia della persona minacciata.  Giovanni Paolo II infatti ha sostenuto e argomentato chiaramente e in più occasioni questa prospettiva, non solo come “diritto”, ma specialmente come “dovere”, criticando l’uso strumentale del principio della “non ingerenza”: “Non bisogna – spiega ai partecipanti alla Conferenza Internazionale sulla Nutrizione (5 dicembre 1992) che le guerre tra le nazioni e i conflitti interni condannino civili indifesi a morire di fame per motivi egoistici o di parte. In questi casi, si devono garantire in ogni modo gli aiuti alimentari e sanitari ed eliminare tutti gli ostacoli, compresi quelli che si giustificano con il ricorso arbitrario al principio della non ingerenza negli affari interni di un paese. La coscienza dell’umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e di interi gruppi etnici: è un dovere per le nazioni e la comunità internazionale, come lo ricordano gli orientamenti proposti durante questa Conferenza”. Il 23 gennaio 1994 il Papa entra direttamente nella questione posta da un conflitto armato: «Purtroppo, nonostante i molti sforzi, la guerra nelle regioni della ex Jugoslavia continua resistendo ad ogni tentativo di pacificazione, e sconvolge tutti noi per le sue crudeltà e le molteplici violazioni dei diritti dell’uomo. No, non possiamo rassegnarci! Non dobbiamo rassegnarci! Agli organismi competenti rimane la responsabilità di non tralasciare nulla di quanto è umanamente possibile per disarmare l’aggressore e creare le condizioni di una giusta e durevole pace».

Non si può certo considerare l’ingerenza umanitaria solo come un’idea personale  di Giovanni Paolo II; il diritto e dovere di fermare l’aggressore ingiusto è patrimonio della dottrina sociale cristiana, oltre che del diritto internazionale, ed è stato riaffermato anche da Papa Francesco, ad esempio nella Conferenza Stampa svolta nel volo di ritorno dalla Repubblica di Corea il 18 agosto 2014. Rispondendo alla domanda se approvava il bombardamento attuato da forze aeree statunitensi in Iraq, per neutralizzare dei terroristi, egli risponde: «In questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. Fermare l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata l’idea delle Nazioni Unite: là si deve discutere, dire: “E’ un aggressore ingiusto? Sembra di sì. Come lo fermiamo?”. Soltanto questo, niente di più». Come si vede, valutare è difficile. Ed è difficile, ma possibile, usare anche le armi se necessario, nel rispetto delle condizioni etiche stabilite dal Catechismo, in obbedienza alla coscienza morale personale e attraverso un discernimento internazionale condiviso. Dobbiamo esserne coscienti noi e devono saperlo anche i possibili aggressori.

Cosa è cambiato rispetto ai casi ungheresi e cecoslovacchi dove la cortina di ferro e la minaccia nucleare impedivano l’intervento occidentale in aiuto agli insorti?
Mi limito a sottolineare un aspetto particolare, pertinente  per il confronto con la situazione attuale dell’Ucraina. Nel 1956 ungherese e nel 1968 cecoslovacco non ci fu un intervento militare diretto degli Stati europei e degli Stati Uniti, esattamente come oggi. Alla luce di quanto ho già esposto, però, appare chiaro un dovere di intervento. Oggi come allora (erano i tempi della “guerra fredda”) è volontà dei Paesi democratici di non scatenare una guerra mondiale.

Nella nostra epoca però, molto più che negli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900,  le economie sono fortemente interconnesse e questo rende possibile una azione efficace, non militare, attraverso le sanzioni. Ma bisogna avere chiaro che cosa si vuole ottenere con le sanzioni. Se l’obiettivo non è attuare una mera “punizione” giusto per dire di avere fatto qualcosa, ma è quello di contribuire a rendere insostenibile per la Russia l’impegno bellico, non solo per quanto riguarda l’invasione dell’Ucraina, ma anche per altre possibili azioni militari russe contro altri Paesi, anche dell’Unione Europea, che in questo momento nessuno può escludere, ci aspettano grandi sacrifici, perché è chiaro che l’interdipendenza delle economie porta forti danni anche a coloro che mettono in atto le sanzioni. Per sostenere i sacrifici bisognerà mettere in atto una grande e diffusa solidarietà, bisognerà compiere delle rinunce, e bisognerà farlo di buon grado, se questo è ciò che serve per evitare l’allargamento della guerra.

Non è stato un errore sviluppare l’interdipendenza economica, anzi: è fondamentale per costruire le basi economiche della pace e della collaborazione e bisognerà riattivarla appena possibile; oggi costatiamo che non è un processo lineare.

Quali proposte concrete si possono fare davanti ad una situazione che sembra senza via di uscita?
Devono essere esplorate tutte le possibilità della diplomazia. Esistono soluzioni che non coincidono con ciò che le parti in causa dichiarano di volere, ma che permetterebbero alle parti di ritirarsi dal conflitto potendo dichiarare di avere ottenuto obiettivi importanti. L’Ucraina potrebbe essere accettata come Paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea (e questo rispetterebbe il diritto ucraino di scegliere la propria collocazione internazionale) ma non entrare nella NATO (e questo risponderebbe all’esigenza russa di non trovarsi con un Paese-Nato ai confini meridionali). Soluzioni accettabili per la Crimea (che ha una maggioranza di popolazione russa) e per le “Repubbliche autoproclamate” del Donbass possono essere discusse e trovate. L’importante è fermare le armi.

Ma questo non basta. Il 10 marzo il ministro degli Esteri russo Lavrov, in occasione dei colloqui  col ministro ucraino Kuleba, ha dichiarato: «Non abbiamo invaso l’Ucraina e non abbiamo l’intenzione di invadere altri Paesi». Questa affermazione, che appartiene ad una logica imperiale capace di giustificare qualunque azione, deve essere presa come un chiaro avvertimento per tutti noi. Il fatto è che non è mai stata la ragionevolezza a portare i detentori di un potere totalitario  alla trattativa, bensì il rapporto di forza. Possono essere portati a soluzioni ragionevoli, ma solo all’interno delle condizioni create dalla forza. Viviamo i giorni di Caino, della fraternità negata tra popoli che hanno invece legami fraterni reali. Per ripristinare le condizioni della fraternità, chi vuole costruire la pace deve avere forza: spirituale, culturale, politica, economica, militare.

L’Unione Europea, attualmente, deve consolidarsi in tutti questi aspetti, anche modificando, per quanto risulti necessario, le istituzioni e gli stili di vita. L’Unione non è del tutto adeguata a ciò che potrebbe accadere, a far fronte a questa e ad altre “non-invasioni”, ora non più imprevedibili. È necessario, è dovere della responsabilità e della prudenza di cittadini sovrani e dei loro governanti, creare le condizioni che permettano a ciascuno di contribuire alla pace nel rispetto delle proprie rette convinzioni.

Qui il Focus con tutti gli interventi sul dilemma  aperto dall’invio di armi in Ucraina

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