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Guerra e menzogna, il caso della Libia

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Come si spiega lo stato di caos nel Paese nordafricano alle nostre porte? Una rivisitazione della storia recente con il giornalista d’inchiesta Giampaolo Cadalanu. La questione aperta della grave violazione dei diritti umani delle persone migranti

 

Nicolas Sarkozy annuncia l’operazione l’operazione ‘Odissea all’alba’ in Libia 2011 ANSA / SKY TG24

Nel 2011, a cento anni dalla guerra italo turca che vide il nostro Paese nel 1912 strappare il territorio libico al controllo dell’impero ottomano, la società civile ha vissuto passivamente il diretto coinvolgimento degli italiani nel conflitto voluto fortemente dalla Francia di Sarkozy per spodestare Gheddafi. Lo storico “colonnello” ben presente nella storia postcoloniale del secondo dopoguerra e con il quale il governo di  Roma presieduto da Berlusconi aveva stipulato nel 2008 uno scenografico trattato di amicizia e collaborazione, riconoscendo le responsabilità dei crimini commessi durante l’occupazione del Paese nordafricano.

Città Nuova, nel 2011, si è distinta sui media per una decisa critica nei confronti dell’operazione bellica prevedendone gli effetti negativi di breve e lungo periodo per la popolazione libica, l’equilibrio internazionale e gli stessi interessi nazionali.

Secondo molti autori, in campo geopolitico quella guerra è percepita come un “atto contro l’Italia“, un vero e proprio “autosabotaggio“.

Ne abbiamo parlato con Giampaolo Cadalanu, giornalista d’inchiesta di notevole esperienza e capacità di lettura degli eventi, per oltre 30 nella redazione di Repubblica, autore di un testo pubblicato da Laterza, Sotto la sabbia. La Libia, il petrolio, l’Italia, che offre una ricostruzione storica di quel periodo per arrivare fino ai nostri giorni.

Un lavoro esemplare e necessario per capire come uscire fuori dalle contraddizioni che ci riguardano da vicino, se solo pensiamo agli effetti del Memorandum sulla Libia sottoscritto dal governo Gentiloni nel 2017 e poi continuamente rinnovato, che getta una pesante ombra sulle responsabilità nel trattamento dei migranti, come insegna il caso Almasri, cioè il comandante della polizia libica, autore di crimini contro l’umanità, arrestato a Torino e poi rilasciato dalle nostre autorità nonostante un mandato di cattura del Tribunale penale internazionale..

Da cosa nasce questo libro che ha richiesto un lungo periodo di ricerca?
Il libro nasce dalla necessità di ribadire un concetto cruciale: le guerre non si fanno senza raccontare bugie. Pensiamo alla famosa presentazione delle fialette di antrace da parte di Colin Powell per giustificare l’intervento armato degli Usa in Iraq nel 2003. Anche nell’era della comunicazione, dove si suppone di avere accesso a tutte le informazioni, le guerre continuano a partire sulla base di falsità. Nel caso della Libia, si è consolidata l’idea di una repressione massiccia da parte di Gheddafi, che all’esame dei fatti non è mai stata provata, per imporre una visione occidentale spesso viziata da interessi concreti, ignorando il benessere della popolazione libica.

Come è stato possibile il coinvolgimento dell’Italia nel 2011 nonostante il trattato di cooperazione del 2008? Un trattato, ricordiamolo, che prevedeva la cessione di tecnologia per il controllo dei migranti e la vendita di armi italiane a Tripoli.
L’Italia è stata “trascinata per la giacchetta” nell’intervento del 2011. Sebbene Berlusconi avesse inizialmente cercato di fermare l’intervento, si trovò politicamente debole e sotto forte pressione interna, anche dal Quirinale, per partecipare. L’idea era che l’Italia non dovesse restare esclusa dal “tavolo dove si decide”. Berlusconi si recò in Francia pensando di fermare l’intera operazione, ma si trovò davanti Sarkozy che disse di aver già ordinato i bombardamenti. Il presidente del consiglio italiano era debole politicamente a livello internazionale e anche a livello di salute personale. Ciò ha impedito una sua forte presa di posizione di statista. La Francia aveva interessi concreti nello sfruttamento delle risorse del sottosuolo (petrolio e gas). L’intervento italiano è stato relativamente defilato, principalmente di supporto, con la partecipazione motivata anche dalla minaccia francese di bombardare gli impianti ENI.

Colpisce l’assenza nel recente trattato del Quirinale della rivisitazione della guerra del 2011. Come si sono evoluti sul campo i rapporti con la Francia?
L’intervento contro Gheddafi è stato lanciato dai francesi principalmente per sostituire l’Italia nell’accesso e nello sfruttamento delle risorse del sottosuolo libico. Nonostante gli sforzi, i francesi sono riusciti solo in minima parte a raggiungere questo obiettivo, in quanto l’ENI italiana ha mantenuto una posizione preminente nello sfruttamento delle risorse libiche grazie alla sua abilità diplomatica e commerciale. I rapporti tra Italia e Francia sono storicamente complessi, con la Francia che, a differenza dell’Italia, non ha ancora completamente radicato una “vergogna” per il suo passato coloniale, il che si riflette talvolta nelle sue azioni internazionali.

Come si spiega il ruolo apparentemente passivo degli Usa di Obama in quella vicenda?
Gli Stati Uniti inizialmente non sembravano intenzionati a partecipare all’intervento in Libia. Obama fu in qualche misura “tirato per la giacca” da Hillary Clinton, che aveva un approccio molto più aggressivo sulla Libia. Sono note e imbarazzanti le immagini che la vedono esultare dopo la morte di Gheddafi. Anni dopo, Obama stesso espresse delusione in una lunga e articolata intervista tipica dei grandi giornali Usa, affermando di aspettarsi che gli europei avrebbero fatto un lavoro migliore in Libia e non avrebbero abbandonato il Paese a sé stesso. In  effetti, le conseguenze impreviste furono disastrose: l’intervento occidentale, condotto senza un piano chiaro per il “dopo”, portò a una guerra civile e all’anarchia, con parti della Libia finite sotto il controllo in franchising dello Stato Islamico. Questo caos ha avuto ripercussioni dirette sull’Italia, data la sua posizione geografica speculare rispetto alla Libia.

Come è riuscita la Russia di Putin a crearsi uno spazio nella Libia post 2011?
La Russia ha agito nello scenario libico con la sua “consueta spregiudicatezza”, sostenendo il generale Haftar per perseguire due interessi principali. Il primo, fondamentale, è la proiezione sul Mediterraneo: la promessa dell’utilizzo del porto di Bengasi è cruciale per la flotta russa del Mar Nero, specialmente dopo il blocco degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Questo garantirebbe a Mosca una presenza militare nel Mediterraneo più adeguata rispetto al piccolo porto di Tartus in Siria. Il secondo interesse è economico e riguarda il petrolio. La Russia ha inviato a sostegno di Haftar un consistente contingente di mercenari Wagner i quali, anche dopo il ritiro dei soldati russi per l’Ucraina, sono rimasti schierati attorno ai siti petroliferi. Questo permette alla Russia di influenzare l’afflusso di petrolio e gas libico, creando pressione politica sull’Europa e facendo salire i prezzi globali, a beneficio anche del gas russo.

Una diffusa storiografia legge la politica internazionale italiana come costantemente influenzata dalla diplomazia britannica. Quale è stato il ruolo di Londra in questo caso?
Storicamente, l’Italia ha spesso allineato le sue scelte di politica estera a quelle di Londra e Washington in modo acritico. Ma c’è da dire che sorprendentemente, lo stesso Parlamento britannico ha condotto un’inchiesta estremamente critica sulla partecipazione del governo di David Cameron all’intervento militare in Libia. Il giudizio è stato negativo, affermando che la partecipazione andava contro gli interessi britannici e, al contrario, seguiva interessi francesi. Questo dimostra un raro esempio di autocritica su una decisione di politica estera da parte di un Paese occidentale, evidenziando come la Gran Bretagna stessa abbia riconosciuto gli esiti negativi di tale coinvolgimento.

Nel recente passato è stato più volte auspicato l’intervento militare italiano diretto (gli scarponi sulla sabbia). Davanti al caos attuale di un Paese diviso in due sotto l’influenza della Turchia e della Russia, quale strategia coerente potrebbe adottare l’Italia per il futuro della Libia?
Ora è troppo tardi. La Turchia è una potenza in espansione che controlla il secondo esercito della Nato. Di fatto si è ripresa la Libia, persa nella guerra del 1911. Prima ancora che alla sfera militare occorre pensare alle relazioni diplomatiche, commerciali e diplomatiche nell’area del Mediterraneo. Nei confronti della Libia pesa l’approccio predominante in tema di flussi migratori considerati come una minaccia. L’enfasi dovrebbe essere sulla ricostruzione dello stato libico, cosa che le attuali fazioni in lotta non stanno facendo, anteponendo i propri interessi a quelli del popolo, come dimostrato dalla tragedia dell’alluvione di Derna del 2023, con i 20 mila morti che testimoniano l’assenza di una vera autorità statale capace di intervenire a sostegno della popolazione.

Relativamente alle migrazioni resta in vita il Memorandum del 2017. Quale diverso approccio è possibile?
L’Italia ha un approccio sul tema dell’immigrazione che definirei “parossistico”, basato cioè su “valutazioni esclusivamente di valore politico interno”. Esiste una “mitologia dell’invasione esterna”, che è stata alimentata dai politici, più che dalla realtà dei fatti, per giustificare accordi con attori discutibili in Libia per il “lavoro sporco” di fermare i migranti. Occorre un ripensamento complessivo sul fenomeno migratorio da considerare non un problema, ma una “risorsa fantastica”. Il mio sogno è che Lampedusa diventi una sorta di “Ellis Island”, un punto di accoglienza dove i migranti siano riconosciuti come persone capaci di portare energie e contribuire alla ricostruzione economica e futura del Paese, anche in termini previdenziali. Un approccio più maturo alle migrazioni porterebbe, di conseguenza, a un diverso tipo di approccio nei confronti della Libia

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