Grado, la Nuova Aquileia

Girovagando tra calli e campielli dell’isola di Biagio  Marin
Isola di Grado

Laguna vasta di Grado, costellata di una miriade di isole e isolotti per lo più disabitati, meta di solitari cultori della natura, per i quali non è infrequente imbattersi ora nei tipici casuni o capanne di pescatori, ora in remoti santuari o monasteri, spesso ridotti allo stato di ruderi: non dirò della graziosa e vivace cittadina turistico-climatico-balneare sorta, a partire dalla fine dell’Ottocento, sulla tua isola maggiore, l’”isola d’oro” dell’Impero austro-ungarico, del cui territorio facevi parte. Né delle sue spiagge assolate e del porto canale con i due bacini riservati alla flottiglia peschereccia e alle imbarcazioni da diporto. Dirò invece del suo nucleo più antico: un reticolato di calli e campielli dall’aspetto tipicamente veneziano.

Se sono pittoreschi, ma di scarsa rilevanza artistica, gli edifici civili, altre meraviglie testimoniano un glorioso passato, allorché, rifugiatasi sull’isola parte della popolazione aquileiese in fuga dalle distruzioni di Attila (452 d.C.), Grado divenne l’estremo baluardo imperiale e per alcuni secoli sede prestigiosa del vescovo (poi patriarca) aquileiese, prima che fosse trasferito a Venezia il ruolo di vera capitale politica e religiosa dell’Alto Adriatico.

Mi riferisco a quel Campo dei patriarchi su cui si affaccia il trittico rappresentato dal Duomo o basilica di Sant’Eufemia (consacrato nel 579, vi è annesso un interessante Museo lapidario), dal coevo Battistero ottagonale e dalla basilica di Santa Maria delle Grazie, che la tradizione vuole fondata nel V secolo dal celebre vescovo Cromazio. Poco distante, in via della Corte, altro importante monumento d’epoca paleocristiana è la basilica della Corte.

Sparsi in questi edifici sacri dalle ombre accoglienti, decori musivi e scultorei, sarcofagi, lacerti di affreschi,  icone, colonne di spoglio da edifici romani, amboni e plutei marmorei, preziosi reliquiari e polittici dal periodo paleocristiano ai secoli successivi, dicono la magnificenza di quella fu che chiamata la nuova Aquileia, prima della triste decadenza seguita alla perdita del patriarcato. Sì perché verso la fine del XVI secolo Grado si ridusse ad un villaggio di poco più di 1300 anime; e si arrivò, nel 1790, a vendere lo storico Palazzo pubblico costruito dal doge Pietro Orseolo alla fine del X secolo per ricavarne un’osteria.
E pensare che proprio qui a Grado il culto dell’evangelista san Marco ricevette le iniziali attestazioni, prima che se ne impossessasse Venezia: in questa cattedrale di Sant’Eufemia il cui pavimento musivo a onde richiama il mare onnipresente della laguna.

Nel passaggio di staffetta dalle passate glorie aquileiesi alle nuove fortune della Serenissima, in queste piazzette e in questi vicoli ora tranquilli ne è scorsa di storia tumultuosa, causa le contese civili e religiose, le invasioni e le occupazioni straniere. È la Grado silente e popolare del poeta Biagio Marin, cantore di questa isola che lo vide nascere nel 1891, a pochi passi dall’antichissima Santa Maria delle Grazie. A giudicare dall’unanime consenso critico e dai prestigiosi premi letterari, vincente fu la sua scelta del musicale dialetto gradese come proprio mezzo espressivo, scelta che poteva sembrare penalizzante. Eccone un saggio che non ha bisogno di traduzioni, l’inizio di una sua poesia da gustare percorrendo le viuzze della Nuova Aquileia: «Drìo l’abside sconta de la ciesa/co’ l’aria profumagia de l’insenso,/ xe un curtiveto sito ne l’atesa/d’un miracolo imenso…».
 

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