Governo israeliano in guerra con palestinesi ed ebrei

Israele è entrato di fatto in guerra con i palestinesi della Cisgiordania ma anche con gli ebrei che protestano contro il tentativo di controllare la Corte suprema: protagonista di questa doppia contrapposizione il ministro per la sicurezza nazionale del Governo Netanyahu VI, Itamar ben Gvir, leader del partito di estrema destra “Potere ebraico”
palestinesi
Migliaia di manifestanti israeliani hanno bloccato l'autostrada principale di Tel Aviv e i principali incroci attraverso Israele in uno sfogo spontaneo di rabbia in seguito alla cacciata del popolare capo della polizia della città. (Foto AP/Oded Balilty)

In Israele l’esercito si è appena ritirato da una pesante operazione militare di 3 giorni nel campo profughi palestinese di Jenin, a nord della Cisgiordania, operazione seguita da un attentato palestinese a Tel Aviv, missili da Gaza e relativo bombardamento aereo israeliano su Gaza. La versione governativa che a Jenin si sia trattato di un’ordinaria operazione antiterrorismo non è credibile, a motivo delle forze e dei mezzi impiegati e del bilancio di vittime, profughi e distruzioni.

Ma è di ieri anche un’altra notizia: le proteste della popolazione ebraica contro il tentativo di controllare le nomine della Corte suprema sono riesplose in decine di città israeliane. Il capo della polizia di Tel Aviv, Ami Eshed, ha dato le dimissioni per protestare contro il ministro per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che lo aveva di fatto estromesso dal suo ruolo a motivo del rifiuto di Eshed di “spaccare le teste e spezzare le ossa” dei dimostranti contrari alla riforma della Corte Suprema (il massimo organo della Magistratura). Riforma che il governo intende varare ad ogni costo per controllare le nomine dei giudici.

Ma andiamo con ordine. Dopo il mio precedente articolo del 28 giugno (La deterrenza si chiama apartheid), a Jenin la situazione è ulteriormente precipitata dal 3 luglio. Senza entrare nella drammatica cronaca di questi giorni, credo sia sufficente qui elencare alcuni numeri: 2.000 soldati israeliani sono entrati nel campo profughi di Jenin utilizzando anche veicoli corazzati, sono stati usati bulldozer per sgomberare le strade e abbattere edifici e droni per bombardare case e luoghi di resistenza. Addirittura anche un elicottero da guerra. Tra i palestinesi il bilancio provvisorio è di 13 morti (tutti tra i 16 e i 23 anni) e qualche centinaio di feriti, alcuni molto gravi, oltre 100 gli arrestati. A causa delle violenze, almeno 3.500 persone sono fuggite cercando rifugio presso parenti e amici. È confermata anche l’uccisione di un soldato israeliano. Nel campo profughi di Jenin, dove si stima abitassero ammassati fra 15 e 22 mila palestinesi, sono stati distrutti dai militari israeliani numerosi negozi e automobili. Il campo è attualmente privo di acqua ed elettricità: tubi e cavi tranciati dai bulldozer. Secondo fonti israeliane sarebbero stati scoperti e requisiti alcuni depositi di esplosivi e un migliaio di armi da fuoco.

La presa di posizione del Patriarcato Latino di Gerusalemme è significativa ed esplicita: una nota diffusa il 4 luglio e firmata dal patriarca Pierbattista Pizzaballa prende una posizione molto netta sugli scontri avvenuti a Jenin: «Negli ultimi due giorni la città di Jenin è stata sottoposta a una aggressione da parte delle forze israeliane senza precedenti, che ha provocato molti danni anche alla parrocchia latina locale. Condanniamo questa violenza e chiediamo un cessate il fuoco e speriamo nella ricerca della pace e del dialogo per prevenire altri futuri e ingiustificati attacchi alla popolazione».

Monsignor Pizzaballa aggiunge parlando a Vatican News della reazione palestinese esplosa a Jenin in risposta all’operazione israeliana: «Sappiamo che sono soluzioni temporanee, cellule risorgeranno continuamente e finché non si risolveranno i problemi strutturali, soprattutto il primo, quello della dignità e della libertà e dell’autodeterminazione del popolo palestinese con un suo Stato, queste situazioni temporanee, dolorose, con tante vittime, continueranno dall’una e dall’altra parte».

Per cogliere qualcosa in più da una diversa prospettiva è intressante ascoltare l’opinione di Gershon Baskin, attivista politico israeliano (di origine statunitense), fondatore di Israel Palestine Creative Regional Initiative (Ipcri), editorialista del Jerusalem Post, ampiamente riportata in un articolo del 4 luglio di Dario Salvi sul sito asianews.it. Baskin afferma fra molto altro: per il governo «la questione (è) bloccare la nascita di uno Stato, che è come “fermare il loro futuro” [dei palestinesi] costringendoli a restare “sotto controllo israeliano senza diritti politici”». Baskin – riferisce Salvi – «invita a guardare a “molti giovani palestinesi che non parlano più di una nazione, ma di eguali diritti. Il discorso è cambiato: le nuove generazioni non vogliono più il mini-Stato senza economia, né prospettive di cui parlavano i genitori che non ha più senso, ma aspirano alla libertà”. Mentre in Israele c’è un governo che “li provoca” sfruttando “le violenze dei coloni, prendendo terre, impedendo ai pastori di allevare il gregge”, con l’esercito che nella quotidianità “protegge i coloni e i loro attacchi”».

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