Gli uomini dai mille mestieri

Storia, costumi e valori di una popolazione che ha saputo colonizzare un arcipelago inospitale del Sud Atlantico: Tristan da Cunha
Tristan da Cunha

Mi chiedo se potrà mai recarvisi qualcuno dei lettori, causa l’immensa distanza da noi, nell’emisfero australe, e il lungo iter necessario per i permessi di viaggio e soggiorno. Vale comunque la pena conoscere qualcosa di quella che viene considerata “la più remota isola abitata del mondo”: un granello sperduto nell’immensità dell’Atlantico meridionale, a metà strada tra America Latina e Africa, al limite dei Quaranta Ruggenti (i terribili venti che soffiano a Capo Horn): Tristan da Cunha.

Fuori da ogni rotta conosciuta, l’isola venne scoperta nel 1506 da una flotta portoghese al comando dell’ammiraglio Tristão da Cunha. L’isolamento, la scarsità di risorse e le condizioni meteorologiche proibitive avrebbero sconsigliato qualsiasi insediamento umano. Eppure, contro ogni ragionevole previsione, quell’unghia di terra vulcanica risulta abitata, più o meno stabilmente, da ormai 200 anni.

«Una comunità – scrive in proposito Annamaria Lilla Mariotti nella sua appassionante storia dell’isola e dei suoi abitanti (1) – che è sopravvissuta a tutto: la fame, la povertà, le tempeste, la solitudine, la perdita di molti uomini, l’eruzione di un vulcano millenario, l’esilio in Inghilterra, l’agognato ritorno, il benessere e poi l’incendio e altri uragani che hanno squassato l’isola e fatto ancora danni, ma tutto sempre vissuto con un’estrema dignità e un’unità d’intenti difficile a trovarsi in qualsiasi  altra parte del mondo. Tutto ciò che viene distrutto dall’inclemenza del tempo, i tristaniani lo ricostruiscono».

Questo arcipelago di selvaggia bellezza, che ha ispirato Edgar Allan Poe, Jules Verne e il nostro Salgari, è composto da cinque isole. Tristan, la principale, ha una superficie di 98 chilometri quadrati e un diametro di circa 11 chilometri. Al centro di essa svetta il cono vulcanico del Peak, alto più di 2mila metri, la cui cima rimane innevata per buona parte dell’anno ed è spesso circondata da un anello di nubi. L’isola non ha un vero e proprio porto, e neppure un faro, ma solo un piccolo molo per l’approdo di barche a motore o di longboats, le tipiche imbarcazioni isolane in legno e tela incatramata.

Vero paradiso per innumerevoli uccelli marini e pinguini, vi sono poi le isole minori Inaccessible, Nightingale, Middle e Stoltenhoff (le ultime due poco più che scogli). Tutte quante oggi sotto la giurisdizione dell’Inghilterra, con un rappresentante –  il chief islander (capo isola) – che gode del rispetto e della fiducia della popolazione.

Singolare è l’attaccamento all’isola dei tristaniani: molti di loro, pur avendo potuto crearsi una esistenza più agevole altrove, come quando nel 1961 l’improvvisa eruzione del Peak costrinse la popolazione ad evacuare, preferirono poi ritornare in quella che per loro era la “casa”. E degni di nota sono i sentimenti di solidarietà, aiuto reciproco e ospitalità, segnalati in questa società di uguali da quanti ebbero modo di soggiornare presso di essa per periodi più o meno lunghi; come pure il fatto che lì non si siano mai verificati episodi di delinquenza e si ignori cosa sia quella “cultura dello scarto”, frutto di una società consumistica, tanto stigmatizzata da papa Francesco.

La stessa lotta per la sopravvivenza deve aver avuto buon gioco in ciò, modellando i caratteri degli industriosi tristaniani, che hanno trovato motivi di gratificazione nelle stesse particolari condizioni in cui sono trovati a vivere: o unirsi o perire! Detto tra noi, dati i tempi che attraversiamo, non vi pare che avremmo molto da imparare da loro, come ad esempio l’importanza di vivere in armonia con l’ambiente naturale e di preservarlo? Dal 1976, infatti, l’intera fauna isolana è protetta, in quanto alcune specie rischiavano l’estinzione. La stessa Inaccessible, zona di passaggio e di cova per almeno sedici specie di uccelli marini, è stata dichiarata riserva naturale.

I circa trecento abitanti di questo pacifico lembo di terra risparmiato da ben due conflitti mondiali per la sua collocazione di assoluta marginalità sono i discendenti dei primi tre coloni di due secoli or sono. Malgrado i matrimoni tra parenti, sono sani e longevi. Sette i cognomi, sempre gli stessi da secoli: Glass, Swain, Green, Rogers, Hagan, Repetto e Lavarello. Gli ultimi due, come si nota, italiani: discendono infatti da due marinai di Camogli naufragati nei pressi di Tristan nel 1892 e accolti sull’isola, dove poi hanno messo radici. Una targa a Camogli li ricorda un po’ pomposamente come “fondatori” di quella lontana colonia. Tuttora sono vivi i legami che uniscono la città ligure alla remota Tristan: lo testimoniano il piccolo ospedale con relative apparecchiature realizzato sull’isola nel 1971 grazie ad una colletta organizzata dai camogliesi e le visite effettuate da tristaniani a Camogli.

Settlement (o Edinburgh), il loro villaggio, si estende sopra un inaspettato pianoro verde sulla costa nord-occidentale dell’isola: un agglomerato di casette bianche, ognuna circondata da una siepe di flax, un’erba alta e resistente, e da muretti in pietra lavica per difendere orti e giardini, gelosamente curati, dal vento e dal clima ostile.

Il grosso della popolazione professa la fede anglicana, ma esiste anche una piccola comunità cattolica, che ha origine in due sorelle irlandesi venute a vivere qui.

Se in passato l’isola viveva barattando i suoi scarsi prodotti con generi di prima necessità forniti dalle rare navi di passaggio, oggi la risorsa principale è costituita dalla pesca delle aragoste, un genere molto richiesto negli Usa, cui va aggiunta la vendita di francobolli locali e prodotti di artigianato, come capi di abbigliamento di lana, uova di pinguino dipinte, mocassini fatti a mano, modellini di longboats.

La Mariotti documenta i naufragi e le ospitalità date ai superstiti dagli isolani, i rari passaggi di navi, i soggiorni di pastori per assicurare una assistenza spirituale, i periodi di carestia e di fame e quelli di abbondanza; ci informa su usi, costumi e feste locali (tra queste, il Ratting Day, dedicato alla caccia ai topi che qui si sono moltiplicati a dismisura); e annota simpaticamente l’impossibilità di fissare un appuntamento con i tristaniani, a motivo dello stile di vita legato alle loro attività, all’imprevedibilità del tempo atmosferico e al diverso concetto del tempo. Risponderebbero sempre: «Sì’, un giorno o l’altro”, «Può darsi domani, dipende da che tempo farà» o cose del genere, rimanendo sempre nel vago.

A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, Tristan si è aperta in parte al turismo. La modernità ha portato anche qui i vantaggi e gli svantaggi immaginabili, ma sostanzialmente il tipo di vita è rimasto quello di sempre, legato ai valori tradizionali.

A fine lettura di un libro che ha il merito di renderci viva, vicina e familiare una comunità lontanissima, mi resta da dare la parola ad Harold Green, un tristaniano che è stato chief islander: «Vivere a Tristan è diverso dal vivere in qualunque altro posto del mondo. Nel mondo esterno ogni persona ha un suo proprio mestiere, ma a Tristan non è così, ognuno ha mille mestieri e ne siamo orgogliosi. Io ho le mie cose qui e non vorrei vivere in  nessun altro posto. Non c’è un’altra Tristan in nessuna altra parte del mondo».

1) Annamaria “Lilla” Mariotti, Tristan da Cunha. Storia e vicissitudini della più remota comunità umana, Magenes, euro 15,00.

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