Gli angeli di Sasha

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Èaffascinante, Alexander, familiarmente Sasha. Classe 1947, moscovita alto e robusto, dagli occhi penetranti, e la voce potente, pare uscito da un’icona o dalla penna di uno scrittore russo. Artista controtendenza, sa far di tutto: pittore, scultore, ceramista, bronzista, grafico…: insomma, una personalità multiforme. Cordialissimo, si apre volentieri durante una cena con amici romani, sotto lo sguardo di Natascia, la moglie silenziosa ed elegante, pronta a intervenire e a commentare al momento opportuno. Sasha, gli amici mi hanno appena mostrato uno dei tuoi angeli, dipinto appositamente per loro. Un lavoro fortemente spirituale, e molto dolce. Ti ha richiesto parecchio impegno? «Per la verità, l’ho realizzato velocemente. A me piace dipingere angeli, ma non so mai cosa mi può succedere durante il lavoro, è un mistero. So che mi incontro con qualcosa che è intorno a me, ma che non conosco sino in fondo. Mi metto così davanti ad una tela bianca, ad una carta senza progetti: aspetto che mi venga qualcosa dal cuore, un’ispirazione. Devo stare in questa attesa, in meditazione, direi, e attendere che arrivi qualcosa…». Dall’alto? «Sì, dall’alto. Io non saprei come definirlo. Prendo una tela o una carta e in quel momento non so cosa uscirà fuori. Non faccio mai schizzi o bozzetti». Ma non è una sofferenza aspettare che venga l’ispirazione? «No, perché mi capita di iniziare immediatamente a lavorare. Certo, per me è molto importante l’ambiente in cui mi trovo. In questo momento, ad esempio, io sono in un clima favorevole, circondato da persone che mi amano; allora dentro me sento un’ispirazione. Non è forse facile da capire, perché è un qualcosa che si spiega solo con l’emozione, con il cuore. Per esempio, per quell’angelo di cui si parlava prima, ci avrò messo una ventina di minuti a dipingerlo: ma non potrei ripeterlo, verrebbe qualcosa di nuovo». I monaci pittori delle icone affermavano di pregare con il pennello in mano. Tu ti riallacci a questa tradizione? «Certo, essi pregavano per la salvezza propria e del mondo: per questo le icone sono piene di energia, irradiano vita spirituale. Anche a me piace lavorare per le chiese, perché dà un senso al mio lavoro. Osservo che le persone cercano spesso il senso religioso della vita, la salvezza dell’anima: ogni uomo, quando non sa dove andare, si rivolge a Dio. Per questo chi, come me, lavora in una chiesa avverte una grande responsabilità: devo credere a ciò che faccio, se no la mia opera non “dirà” nulla». Ti sei formato all’Accademia di Mosca, sei un ammiratore del rinascimento italiano e fin da piccolo copiavi le icone. «È vero. Attualmente, sto tentando di fare quasi una unione fra l’arte russa e quella occidentale, perché avverto il desiderio di aprirmi il più possibile anche a ciò che viene dall’esterno». Anche tu vorresti produrre un’arte che respira “a due polmoni”, orientale e occidentale? «Cerco di fare questo, in verità, non solo con l’arte ma anche con la vita. Da dieci anni sono in contatto vitale con i francescani; pur essendo russo ortodosso, vengo accettato dai cattolici. Prima abitavo a Fiume, ora dal ’97 sto a Mostar nello stesso convento dei francescani, condividendo la loro vita. Pure mia moglie è venuta a stare con me, in un piccolo appartamento nel sottotetto del convento, dove ho lo studio. Spesso però Natascia va in Ucraina a trovare nostra figlia, anch’essa artista. Comunque, con la mia vita ed il mio lavoro vorrei testimoniare l’unità, la fratellanza fra culture diverse, fra oriente e occidente». Stai lavorando alla decorazione completa della cappella quotidiana nella chiesa di Mostar in ricostruzione. A che punto sei arrivato? «Ho già eseguito le quattordici sculture lignee della via Crucis, un trittico in legno di quercia, sei vetrate, e la porta di bronzo, il tutto in quattro anni. Ora dovrò eseguire la posa in opera di tutti questi lavori». Hai fatto tuo il detto che bisogna salvare la bellezza per salvare il mondo. Ne sei ancora convinto? «Sì. Basta osservare i talebani: prima hanno distrutto i Buddha e poi le persone a New York. Prima si uccide la bellezza e poi la gente. Per questo, credo che gli artisti dovrebbero scegliere bene per chi lavorare , se per Dio o per qualcos’altro. Il male distrugge sempre l’arte spirituale e oggi ce n’è invece un gran bisogno. «Perciò io desidererei che, attraverso le mie opere, la gente aprisse la propria anima alla salvezza: non solo quella personale, ma anche degli altri, come Cristo che ha dato la vita per tutti. È quello che provo, seguendo l’ispirazione, quando dipingo degli angeli; io non li vedo come personaggi dolciastri, ma creature forti, che ci seguono e ci orientano alla salvezza». Ogni artista, credo quindi anche tu, alterna la felicità con la sofferenza… «Io sono felice quando mi viene una luce, una soluzione mentre sto lavorando; e poi quando chi vede le mie opere sente la mia stessa gioia. Tutto ciò mi dà nuova energia per continuare il lavoro. Mentre invece, quando la gente gira le spalle davanti alle mie opere, ci soffro parecchio. Perché è sempre difficile quando, con l’arte, tu vorresti aprire l’anima in una società così materialista, e la gente ti dice “non mi serve”. Comunque, io cerco di non mentire mai nel mio lavoro, ma di appoggiarmi a Dio, a quello che mi viene dal cielo, perché lassù non c’è la menzogna. Noi siamo strumenti nelle sue mani, occorre lasciarsi guidare». Possiedi una fede molto forte. Chi te l’ha trasmessa, dato che sei nato in una nazione ufficialmente atea? «In Russia era interessante notare come parecchia gente, pur comunista, battezzava i propri figli. Anch’io sono stato battezzato da bambino. Mia nonna era molto religiosa: lei mi incoraggiava quando da piccolo copiavo le icone. Da adulto, ho compreso meglio le mie radici e ho cominciato a lavorare nelle chiese. Avverto infatti che l’arte – tutte le arti, come la musica per esempio – vanno insieme: come si respira l’aria, così esse diventano un unico respiro verso Dio».

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