Giuseppe ha 40 anni, anzi 3000

Non c’è dubbio. Giuseppe aveva fascino. Un fascino lievemente supponente, appena un po’ fastidioso. Come tutti i fascini. Ma incontestabile. Forse per questo motivo la sua storia è spesso sgattaiolata fuori dalle austere pagine della Bibbia per ammaliare sia gli artisti sia il pubblico profano.Ne ha subìto il fascino Thomas Mann che al racconto biblico del giovanotto Giuseppe ha dedicato una consistente tetratolgia (Giuseppe e i suoi fratelli), da molti considerata il suo più audace capolavoro, la summa filosofica, artistica e politica dello scrittore tedesco. Ne ha subìto il fascino pure Andrew Lloyd Webber. Il quale, nel 1967, appena diciannovenne, esordì con il frizzante musical Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat, basato sulla storia dell’ebreo Giuseppe. Ed ora scocca il compleanno, torta con ben 40 candeline, per il Giuseppe di Webber: la prima opera dell’artista londinese, che inanellò successivamente una fortunatissima serie di successi come Jesus Christ Superstar, Evita, Il fantasma dell’Opera e vari altri. Andrew Lloyd Webber, classe1948, è figlio d’arte. Il padre era compositore, la madre insegnante di pianoforte, il fratello Julian è un violoncellista di fama mondiale, la zia Viola era attrice. Fu lei a introdurlo da fanciullo al fantastico mondo dei palcoscenici. Così Andrew, piccolo Mozart con le dovute – dovutissime – proporzioni, cominciò a scribacchiare note fin da bambino e a nove anni pubblicò la sua prima raccolta di sei brani. Zia Viola lo incoraggiò a produrre le sue composizioni in un piccolo teatro giocattolo che s’erano costruiti. Allora certamente lui non sapeva che sarebbe diventato il proprietario del Palace Theatre e di molti altri teatri di Londra, che si sarebbe affermato come uno dei più ricchi artisti contemporanei, e che sarebbe stato annoverato come il più celebre compositore di musica da teatro della fine del XX secolo, e probabilmente come il più conosciuto compositore di musica da teatro di tutti i tempi. Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat, il suo primo musical, è una allegra, leggermente irriverente, ri-narrazione della storia di Giuseppe: invidia e tradimenti s’intrecciano amabilmente a profezia e perdono: un’esplosione di sprizzante fantasia giovanile che mescola baldanzosamente stili musicali dal calypso al rock al country. All’inizio fu commissionato al giovane Andrew come una cantata di 15 minuti per un coro di bambini d’una scuola; poi, sulla scia del successo di Jesus Christ Superstar, s’impose nei teatri di Broadway. Ma la storia di Giuseppe, la ricordate? Bisogna scendere negli anfratti del tempo, ben più di tremila anni or sono. Dove, nella terra di Canaan (in quei turbolenti territori che ora sono un po’ Israele, un po’ Autorità Palestinese) un gruppo di pastori seminomadi aveva iniziato un’avventura straordinaria. Un’avventura? Straordinaria? Beh, sinceramente chi li aveva in- contrati allora, chi li frequentava per i pascoli, per i pozzi, per le mogli, per vendere e comprare bestie, non aveva notato in loro alcunché di straordinario né d’avventuroso. Un loro progenitore, un certo Abram, un uomo della terra dei grandi fiumi, un tipo irrequieto, come tutti gli uomini spirituali lo sono (mai a loro agio fra le cose del mondo), aveva avuto sì un’avventura eccezionale. S’era mosso dalla sua terra, è vero, ma questo non era ancora straordinario per dei pastori nomadi. Lui aveva però avuto un rapporto speciale con Dio: aveva recepito nel suo cuore la sua voce e gli aveva… creduto. Una cosa impalpabile, un fruscio dell’anima. Questo sì, era stato straordinario. Anche se era una cosa che non si notava all’esterno, che stava tutta lì, nelle fibre più intime del cuore. Lì dove solo si sa se si è sinceri oppure no; se si crede veramente oppure si finge, ci si autoinganna. Così iniziò l’avventura straordinaria del progenitore Abram, lieve come la brezza mattutina di primavera: la religione, conosciuta e praticata da tanti in tante forme, con lui era diventava fede. E quest’avventura tutta interiore, mescolata ai tanti fattacci della vita, se la raccontavano quei pastori presso i pozzi, nei prati assolati mentre pascolavano le pecore, alla sera accanato al fuoco: Abram aveva generato Isacco, Isacco aveva generato Giacobbe e Esaù, Giacobbe aveva generato dodici figli… Tra i quali Giuseppe, il suo pupillo. Giuseppe, benedetto dal cielo da un carattere solare, che traspariva dalla luce dei suoi occhi. Per certi versi era dei fratelli il più simile al padre Giacobbe, ma per altri così diverso… il padre aveva sempre dovuto trafficare – in modi più o meno condivisibili – per emergere, era più incline alla riflessione, interiorizzava, aveva dovuto guadagnarsi tutto con fatica. Anche il suo nome nuovo, Jisrael, l’aveva ricevuto dopo aver strenuamente lottato con Dio. Per Giuseppe invece tutto sembrava facile, il suo sguardo era scintilla del cielo. Il suo candore, sfrontatamente ingenuo, gli faceva percepire le realtà terrene attraverso la leggerezza sogni. Questo fascino, che incantava il padre Giacobbe, e che aveva i tratti della prediletta sua moglie Rachele, dava sui nervi e non poco ai più focosi e burberi fratelli. Che, portati all’esasperazione – perché il fascino porta spesso a chi non lo esercita alla più viscerale e incontrollabile invida -, decisero di ucciderlo, poi per benevolenza si limitarono a venderlo come schiavo. Così iniziò il processo di maturazione di Giuseppe: conobbe la schiavitù, conobbe le lusinghiere e menzognere insidie d’una donna perfidamente vanitosa, conobbe l’amarezza del carcere. Imparò anche lui, nelle fibre nascoste del suo cuore, quello che raccontavano d’estate e d’inverno presso le tende: Abram aveva creduto, la religione s’era fatta fede, Abram aveva trasmesso queste cose a Isacco, Isacco le aveva trasmesse a Giocobbe… Il finale, uno spettacolare lieto fine, è uno dei più belli e commuoventi. Il trionfo del perdono, l’abbraccio con i fratelli, la serenità d’avere accanto a sé il vecchio padre, il patriarca Giacobbe, che concludeva così, con tutta al famiglia riunita in terra d’Egitto quella sua vita così singolare. Un finale troppo bello per non farne un musical. Infatti, Andrew l’ha fatto. ANDREW LLOYD WEBBER (1948) in collaborazione con il paroliere Tim Rice, ha scritto diversi musical di successo: Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat, Jesus Christ Superstar e Evita. Successivamente, con altri parolieri, ha composto musicals che sono stati in cartellone per anni sia nei teatri di Londra sia a Broadway: Cats, Starlight Express, Il fantasma dell’opera. Tra le altre opere di Webber: Aspects of Love, Sunset Boulevard, Whistle Down the Wind, Song and Dance, The Beautiful Game, The Woman In White. Nel 1984 ha composto un Requiem in onore del padre defunto, nel quale c’è il celebre brano Pie Jesu. Nel 1997 è stato nominato un pari d’Inghilterra.

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