Il giudice ragazzino “vive” ancora

Una cerimonia al ministero della Giustizia con le reliquie del beato Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. L’insegnamento mai tramontato della sua vita spesa per la legalità
Beato Livatino
Un momento della cerimonia di beatificazione del giudice Rosario Angelo Livatino, ucciso dalla mafia (Foto Fabio Peonia/LaPresse 09/05/2021 Agrigento)

Intorno alle dieci del mattino di un freddo venerdì di gennaio, scortata dalla polizia penitenziaria in alta uniforme, fa il suo ingresso al ministero della Giustizia la reliquia del Beato Rosario Livatino: la sua camicia insanguinata, indossata per l’ultima volta il 21 settembre del 1990, giorno del suo brutale assassinio avvenuto mentre era diretto come d’abitudine, con la sua auto, al Palazzo di giustizia di Agrigento atteso dai suoi due colleghi che con lui dovevano tenere udienza collegiale.

In cima alla scala monumentale del palazzo di via Arenula il ministro Carlo Nordio con il vicecapo di Gabinetto Giusi Bartolozzi, attendono davanti alla porta della Sala intitolata proprio al giudice Rosario A. Livatino per l’inizio della breve cerimonia di accoglienza preparata all’interno.

C’è fermento fra il personale tutto, questo evento non comune attira al di là di ogni previsione tanti dipendenti che accolgono con viva partecipazione l’invito a fermarsi nell’aula intitolata proprio al giudice ragazzino, a riflettere davanti alla camicia insanguinata, segno visibile del suo martirio.

«È sempre così», dice don Gero Manganello, che “accompagna” la reliquia del beato nei diversi luoghi in cui viene esposta. «All’inizio veniamo accolti con la formalità che è consona ai luoghi istituzionali, ma poi inaspettatamente le persone esprimono gesti ed atteggiamenti di profondo raccoglimento. Con alcuni nascono occasioni di dialogo: momenti sacri nei quali si arriva a manifestare non solo il dolore della propria sofferenza, ma la richiesta di consigli, di preghiere e benedizioni».

Cerimonia al ministero della Giustizia con le reliquie del beato Rosario Livatino. Foto: Giuseppe Merulla e Anna Maria Magrelli

Anche al ministero della Giustizia il 20 gennaio, una delle ultime tappe della peregrinatio romana del Beato Livatino, si assiste ad un via vai costante di persone che, cominciando dal ministro Nordio e dalle altre figure istituzionali, fanno una breve visita, ascoltano il documentario di testimonianza della vita del giudice, con la lettura di brani significativi tratti dai suoi scritti, (vedi video)e sfilano in un contesto di raccoglimento unanime davanti alla piccola teca alla cui base sono simbolicamente posti due volumi a rappresentare il Vangelo e il Codice Penale.

Cerimonia al ministero della Giustizia con le reliquie del beato Rosario Livatino. Foto: Giuseppe Merulla e Anna Maria Magrelli

Abbiamo modo fuori dall’aula di approfondire il colloquio con don Gero: «Nelle scuole», confida il sacerdote «quando i ragazzi vengono avvisati del passaggio fatto dalla reliquia, per prima cosa chiedono il significato della parola reliquia, e inizialmente sono interessati solo a “saltare” qualche ora di lezione. Arrivano scherzando, ma appena si rendono conto di ciò che si trovano davanti ammutoliscono, e poi nasce l’occasione per condividere le loro storie: al sud spesso le loro famiglie sono coinvolte dal fenomeno mafioso, volontariamente o loro malgrado; tanti vivono le dinamiche che lo connotano: qualcuno ha il papà in carcere , i genitori di qualche altro invece hanno ricevuto minacce per non aver pagato il pizzo… A quel punto ho l’opportunità di affrontare i temi scottanti che riguardano la vita di tutti i giorni, e le scorciatoie che tutti noi dobbiamo giorno per giorno decidere di non prendere per non soggiacere alla serpeggiante mentalità mafiosa, che ci spinge ad esempio a cercare l’aiutino per accedere ad una facoltà a numero chiuso, per evitare una lista di attesa per ottenere una visita medica…».

E continua donando l’unicità di tanti significativi frammenti della vita di Rosario Livatino: straordinaria perché con fermezza e radicalità ha portato a compimento il miracolo di una esistenza mai scissa nell’assolvimento del proprio dovere di cristiano e di magistrato, una vita contraddistinta dall’onestà limpida dell’uomo che affermava con la lucida determinazione testimoniata da chi lo ha conosciuto direttamente: che al codice penale manca l’anima, e serve solo per condannare la persona, mentre solo il Vangelo può salvarla.

Cerimonia al ministero della Giustizia con le reliquie del beato Rosario Livatino. Foto: Giuseppe Merulla e Anna Maria Magrelli

Ci colpisce l’affermazione di don Gero: «Il vero miracolo che si legge tra le righe della sua vita è: diventare santi vivendo l’ordinarietà della propria esistenza e facendo bene il proprio dovere. Forse proprio perché il Beato Livatino non ha fatto miracoli in vita, ci insegna che il vero miracolo è una vita spesa così. Del resto, parafrasando papa Francesco, il nostro compito non è altro che quello di fare bene il bene, e mettere ogni aspirazione, ogni gesto, ogni azione della nostra vita sub tutela Dei, motto che ha fatto proprio il Beato Rosario».

La sua vita (e la sua morte) ci consegnano un semplice ma tragico insegnamento: l’esercizio del nostro dovere di stato, oltre a essere la chiave della santità, può diventare la sede del nostro martirio, non per forza cruento, ma che può realizzarsi nella quotidianità ad esempio scontentando un amico che chiede un favore fuori dal perimetro della legalità, rifiutando una regalia interessata, non accettando benefici in cambio di nomine di persone inadatte ai ruoli da ricoprire.

Significativi alcuni passaggi dell’orazione pronunciata dal ministro Nordio nella cerimonia svoltasi nella basilica Santa Maria degli Angeli e dei martiri di Roma che sottolineano quanto la giustizia che ci ispira Livatino va oltre l’onore che ha caratterizzato la sua toga, perché siamo davanti al mistero della fede che consola le tragedie di questa vita precaria e temporanea per mutarne la visione in una prospettiva di eternità. Ed è questa, secondo il Guardasigilli, l’eredità preziosa del primo magistrato laico beatificato, la visione escatologica dell’anima che a va al di là della visione razionalista dell’esistenza umana e del cosmo. Infine, ci hanno colpito queste affermazioni: «Quella reliquia ci ispira innanzitutto la fede, quando essa sembra vacillare, ci ispira la speranza quando sembra non vi siano più ragioni per sperare, ci ispira la carità persino nei confronti dei più malvagi tra i malvagi e in fine ci ispira la Giustizia».

In questa prospettiva, appare possibile sperare nel recupero del diritto come riferimento unitario della convivenza ordinata tra gli uomini, per accompagnare con una nuova consapevolezza della forza della legalità l’azione di riforma della giustizia che, in una democrazia moderna, non può risolversi in un compito delegato ad una minoranza di addetti ai lavori, ma deve trovare sostegno nell’impegno e nella coscienza rinnovata/purificata individuale e di tutti i soggetti collettivi che compongono lo Stato.

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