Giovannini, occorre una visione di futuro

Quali scelte strategiche sono necessarie nel nostro Paese in vista del Recovery and Resilience Plan? Intervista a Enrico Giovannini, promotore e portavoce di una grande Alleanza per lo sviluppo sostenibile. Anticipazione in vista del nuovo numero di Ottobre di Città Nuova “Idee per l’Italia”
Futuro e cambio climatico AP Photo/Antonio Calanni

Il futuro possibile passa dalle scelte strutturali in economia. Si è appena concluso, il 27 settembre, il Festival dell’Economia civile di Firenze, svoltosi sotto la direzione scientifica di Leonardo Becchetti. Ed è anche terminato il Festival dell’economia di Trento ideato e diretto da Tito Boeri. Appuntamenti importanti per capire cosa bolle in pentola nelle diverse scuole di pensiero messe a confronto con il governo. Ad entrambe ha partecipato da remoto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma un altro Festival di idee e proposte è tuttora in corso fino all’8 ottobre, quella dello sviluppo sostenibile, guidato da Enrico Giovannini che abbiamo intervistato in vista del numero di ottobre di Città Nuova incentrato sulle “Nuove idee per l’Italia” nel pieno della crisi che stiamo attraversando a livello mondiale per effetto della pandemia.

Giovannini è professore di statistica economica all’Università di Roma “Tor Vergata”, già presidente dell’Istat e Ministro del Lavoro, con una lunga esperienza di direttore dell’Ocse, è un interlocutore credibile per cercare di capire una possibile via di uscita da una lunga crisi che, dal terremoto finanziario del 2007-2008 alla pandemia del 2020, contrassegna in maniera particolare il nostro Paese. È il promotore e portavoce di una grande Alleanza per lo sviluppo sostenibile (ASviS) che raduna praticamente, al di là del numero, ben 270, gran parte delle realtà associative italiane. Ragiona e parla di futuro, mentre gran parte del discorso pubblico sembra intrappolato, come osservano in tanti, in un eterno presente.

Cosa ci dice questa crisi?
Di sicuro per tante persone rappresenta un dramma di proporzioni enormi, ma è anche un modo per accelerare il cambiamento di paradigma di cui si avverte da tempo la necessità. Se ne è parlato addirittura nell’incontro di Davos di inizio anno, dove si è riconosciuto che il capitalismo degli ultimi 40 anni, che pure ha prodotto risultati straordinari, non è in grado, per sua natura e impostazione culturale, di affrontare i problemi del XXI secolo che sono quelli della non sostenibilità ambientale ma anche economica e sociale (diseguaglianze) di un modello che presuppone una crescita quantitativa continua e senza fine. La pandemia ha mostrato a tutti noi che non solo si può cambiare, ma “lo si deve fare”. Alcuni tabù sono crollati, dalla mobilità ai tempi e luoghi di lavoro (non più tutti assieme nello stesso luogo 5 giorni la settimana). D’altra parte, le diverse modalità con cui i Paesi hanno risposto alla crisi provocherà un rimescolamento di carte sul piano culturale e politico.

Enrico Giovannini (da pagina Fb ASviS - Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile)
Enrico Giovannini (da pagina Fb ASviS – Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile)

C’è stato, a suo parere, un cambiamento anche a livello di Ue?
Certo. L’Unione europea, cambiando totalmente registro rispetto al passato, si sta ponendo come potenziale attore mondiale di cambiamento, per uno sviluppo sostenibile, perché ha preso decisioni storiche finora osteggiate da alcuni Paesi, definendo degli obiettivi chiari come il new green deal, la digitalizzazione, la lotta alle diseguaglianze, impossibili da raggiungere con prospettive politiche limitate di breve termine. Ad esempio, grazie alla pandemia ogni Paese, proprio per perseguire i propri interessi, è maggiormente consapevole di dover collaborare con gli altri nel campo della produzione e della ricerca. La transizione ecologica viene percepita ormai come inevitabile perché, come ha detto il papa, non si può pretendere di vivere sani in un mondo malato.

E come può essere gestito tale cambiamento?
Con cambiamenti nel modo di funzionamento delle imprese, ma soprattutto con politiche pubbliche innovative, perché il salto tecnologico e la riorganizzazione della vita comune richiede capitali che guardino al medio termine, e sistemi di welfare che si prendano cura delle persone coinvolte da trasformazioni così radicali. Impegni insostenibili per le imprese private, anche grandi. Questo scenario di cambiamento può realizzare una maggiore giustizia tra le generazioni, una diversa cooperazione tra adulti e giovani, invece che la competizione su risorse sempre più scarse. Un criterio guida, quello della giustizia tra generazioni, che andrebbe accolto nelle costituzioni di ogni nazione, come sta cominciando ad avvenire in alcuni Stati europei.

Per realizzare questo obiettivo è quindi inevitabile la mano pubblica nell’indirizzare le politiche industriali in certi settori, anche per dare occupazione a tante persone che saranno espulse dal lavoro?
Fermo restando che puntare su produzioni sostenibili e responsabili è ormai un criterio condiviso da molte imprese private, vedo la necessità che il settore delle aziende pubbliche prenda coscienza dell’innovazione che può generare. Si pensi, ad esempio, all’Enel che ha dato una sterzata alla propria impostazione diventando uno dei soggetti più interessanti a livello mondiale nel campo delle energie rinnovabili e della mobilità sostenibile. Una direzione impressa, tuttavia, dalla capacità manageriale dell’amministratore delegato Francesco Starace e non da un chiaro indirizzo pubblico. Per questo motivo, all’inizio di quest’anno, in occasione delle nomine dei vertici delle principali imprese pubbliche, abbiamo invitato il governo a dare loro un esplicito mandato a realizzare innovazione e sostenibilità e non solo ad assicurare un ritorno finanziario per l’azionista statale.

Ci sono esempi da riprendere dagli altri Paesi?
Una traccia da seguire è quella tedesca dell’Agenzia pubblica dell’innovazione radicale, l’Agentur für Sprunginnovation, creata per sostenere e collegare gli innovatori con le imprese medio-piccole che non hanno i capitali necessari per finanziare i costi di ricerca e sviluppo. Una “mano pubblica” che innesca un processo virtuoso, finanziato poi dalla crescita delle stesse aziende. Un modello replicato da noi solo in Alto Adige. In Italia esistono, come rileva l’Istat, migliaia di imprese eccellenti a livello internazionale, ma occorre determinare per molte aziende piccole e medie quella discontinuità tecnologica, culturale e organizzativa necessaria per crescere di dimensione, attrarre investimenti e persone competenti, andare sui mercati internazionali. È un caso che oggi un dottore di ricerca guadagna all’estero mille euro in più al mese rispetto a quello che prenderebbe restando in Italia? Ci vogliono investimenti mirati del pubblico per far uscire il nostro sistema produttivo dal circolo vizioso fatto di piccole imprese, poca innovazione, bassa produttività e bassi salari.

Il comitato interministeriale è chiamato a definire tale strategia per presentare il Recovery plan entro il 15 ottobre. Ci sono le linee guida esplicitate dal Governo…
Un lavoro decisivo, occasione unica e irripetibile, che va fatto con grande responsabilità, senza cedere alla fretta, tenendo presente che, allo stato attuale, non sempre i nostri ministeri possiedono un adeguato patrimonio di competenze tecniche e scientifiche, capace di fare proposte che vadano al di là di pur utili miglioramenti, ma che siano in grado di porre il nostro Paese sulla frontiera e capace di fronteggiare le sfide future, non solo quelle odierne. Per fare un piano sui prossimi dieci anni serve una visione e una strategia chiara, non basta la giustapposizione di diversi progetti.

E allora come si fa?
Sono almeno due anni che propongo, invano, la costituzione di un istituto di studi sul futuro. Qualcosa che può sembrare strano e invece già esiste da tempo in altri Paesi, come la Francia, Singapore e altri. Ho partecipato agli incontri internazionali di alcuni di questi istituti che hanno il compito di scandagliare il futuro per offrire delle direttrici di marcia ai decisori politici. Per fare un esempio che può sembrare banale, a Singapore si costruiscono box per auto più alti del solito perché prevedono in futuro una diminuzione progressiva della mobilità individuale e il possibile riutilizzo di un patrimonio immobiliare altrimenti inservibile. Capire i settori in crescita e quelli in declino permette di orientare gli investimenti e accompagnare la transizione.

L’idea dell’istituto come è stata accolta?
Nonostante l’interesse del ministero dell’economia, durante il Conte 1 la Presidenza del Consiglio ha detto che il progetto non era interessante. Per non disperdere le conoscenze possibili in questo campo l’ASviS ha creato un sito, Futuranetwork.eu, che raccoglie studi e documentazioni sui temi rilevanti per il nostro futuro, liberamente consultabili. Non a caso, il mio libro del 2014 si chiamava “Scegliere il futuro” e quello del 2018 “Utopia sostenibile”. La buona notizia è che, al di là dell’Istituto sul futuro, altre proposte che ho fatto negli anni si stanno realizzando.

Il cambiamento di paradigma, si può dire forzato dalla pandemia, necessita di un esame di coscienza collettivo. Ne coglie i segni nel nostro Paese?
Purtroppo no, almeno a livello di classe dirigente, oltre quindi la responsabilità della politica. Vedo il dibattito pubblico spesso concentrato su questioni marginali, mentre ci attendono scelte indilazionabili destinate ad incidere pesantemente sulla nostra vita, cosa che altri Paesi stanno invece facendo proprio ora. Una pandemia era prevista da tanti scienziati che ci avevano avvertito. Si sarebbe potuto agire preventivamente, ma la cultura della prevenzione e della preparazione non sembra appartenere al nostro Paese. Se si troverà il vaccino, il virus potrà essere debellato, ma, come ha ricordato Ursula von der Leyen, per il cambiamento climatico, che tutti ormai conosciamo nei suoi effetti devastanti, non esiste alcun vaccino possibile. e a questo dobbiamo prepararci rapidamente: basta vedere i danni che eventi metereologici estremi comportano per il nostro Paese a causa della poca cura del territorio e all’eccessivo consumo di suolo.

Eppure, fanno notare alcun analisti, proprio il varo del Recovery Plan è coinciso con la diminuzione delle risorse destinate, a livello europeo, Fondo per la transizione energetica equa…
In questo caso non vedo affatto una contraddizione perché la transizione ecologica – insieme alla digitalizzazione – è diventata una condizione necessaria per i progetti a valere sulle ingenti risorse del Recovery and Resilience Plan. Per fare un esempio semplice, la riconversione ecologica dell’ex-Ilva di Taranto sarebbe un progetto che rientra tra quelli finanziabili, al contrario della apertura di una nuova acciaieria che non sia allineata alle migliori pratiche ambientali.

Sul dibattito intorno al Recovery Fund vedi anche l’intervista a Carlo Stagnaro dell’istituto Bruno Leoni

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